Domanda che mi domando: ma Caterina Chinnici, la figlia prediletta dell’antimafia, transitata la primavera scorsa dal Pd a Forza Italia, li legge i giornali? Ha un’idea dell’insopportabile odore di fritto – chiamiamolo così per non usare parole da mattinale giudiziario – che si respira dalle parti di Palazzo d’Orleans? Ha avuto sentore degli sprechi, delle tresche, delle compromissioni, degli intrighi, delle consorterie e delle scempiaggini che le cronache riportano puntualmente a galla ogni qualvolta entrano nei corridoi della Regione? Ha saputo che il governatore Renato Schifani, l’uomo che l’ha accolta calorosamente nel dorato mondo berlusconiano, ha tenuto per sé l’amministrazione del proprio narcisismo e dei propri rancori, e ha dato i poteri della la Regione in subappalto a due nomi pesanti, molto pesanti? Uno è Totò Cuffaro, leader della DC, al quale sono state consegnante le leve della politica: è lui che distribuisce le carte; è lui che decide sulle nomine; è lui che stabilisce gli equilibri interni alla maggioranza. L’altro è Gaetano Armao, un avvocato d’affari, al quale sono state date le deleghe sulle questioni più delicate che attraversano l’economia e il mondo delle imprese: è lui che decide la gestione dei fondi europei; è lui che stabilisce se un progetto industriale garantisce o meno la tutela ambientale della Sicilia.

A differenza di Rosario Crocetta che, per nei passaggi più riservati e opachi del suo governo, si affidava a Giuseppe Lumia, un professionista dell’antimafia soprannominato non a caso il “senatore della porta accanto”, il governatore Schifani ha scelto la via del subappalto, distribuito equamente su due personalità la cui caratura politica non può lasciare indifferente la sensibilità morale e civile di Caterina Chinnici. Il leader democristiano ha una storia giudiziaria che, al netto di una pena vissuta certamente con dignità e compostezza, non può essere ignorata; una storia alla quale si è aggiunto proprio in questi giorni il capitolo tristissimo di Nuccia Albano, la figlia di un capomafia, promossa come rappresentante della Dc cuffariana al rango di assessore regionale alla Famiglia.

Di tutt’altro genere, ma non per questo meno inquietante, la storia di Armao. Ha solcato per oltre dieci anni tutti i mari della politica: è stato assessore nel governo “autonomista” di Raffaele Lombardo, poi è passato con Gianfranco Miccichè, poi è entrato nel governo di Nello Musumeci, poi si è candidato alla presidenza della Regione con Renzi e Calenda, infine è approdato alla corte di Renato Schifani. Un multicasacca che non ha mai brillato, dispiace dirlo, per un eccesso di legalità o per un sovrappiù di trasparenza. Anzi, tra un incarico e l’altro ha trovato sempre il tempo di curare i suoi interessi: una volta come consulente di Stefano Ricucci, l’immobiliarista principe tra i “furbetti del quartierino”; un’altra volta come consulente di Ezio Bigotti, l’avventuriero piemontese che con un censimento farlocco del patrimonio immobiliare della Regione ha incassato qualcosa come cento milioni, subito trasferiti, manco a dirlo, nel paradiso fiscale del Lussemburgo.

Domanda che torno a domandarmi: che cosa serve ancora per convincere Caterina Chinnici a dire una parola, una sola parola, sulla Sicilia? Quali altri elementi le occorrono per dare un giudizio – certamente sereno, per carità –  sulla gestione politica di Renato Schifani, che è il suo sponsor, e sul ruolo di Forza Italia, che è il suo partito?

Sinceramente, è difficile trovare una spiegazione al suo tenace silenzio. E poiché non voglio per nessun motivo cedere alla tentazione di richiamare una parola acida e disgustosa, come l’omertà, preferisco immaginare una mia personalissima verità, per quanto fantasiosa e azzardata. Preferisco ipotizzare che Caterina Chinnici, figlia del magistrato coraggioso assassinato quarant’anni fa dalla mafia in via Pipitone Federico, abbia deciso senza clamore di tagliare la corda e di abbandonare in silenzio, magari solo con una telefonata confidenziale ad Antonio Tajani, la traballante barca degli azzurri, a bordo della quale era salita nella primavera scorsa.

Del resto, di fronte allo scenario che qui si è appena descritto è difficile non provare un certo disgusto. La scelta del subappalto non solo ha provocato disastrose conseguenze sul piano politico; non solo ha acceso le inevitabili gelosie, come quella molto affilata di Raffaele Lombardo verso Cuffaro; ma ha anche spalancato le porte a un esercito di pagnottisti la cui aspirazione principale è quella di emulare le spavalderie spagnolesche – soldi, potere e bella vita – concesse da Schifani al fraternissimo Armao. Anche a costo di scavalcare i confini del ridicolo. Basta un esempio. Il Corecom – una baracchetta di sottogoverno del tutto inutile: serve solo a pagare gli stipendi – è composto, come si sa, da un finto esperto in comunicazione, che è il presidente, e da quattro giornalisti che non hanno altro compito se non quello di capire, dopo un anno, perché si trovano lì, in quel posto sospeso a metà tra il niente e il nulla. Insomma, hanno molto tempo a disposizione. Ma, nonostante questo, tutti i componenti dell’onorevole consesso hanno avvertito il dovere, la necessità e l’urgenza di istituire un ufficio stampa; hanno quindi bandito un concorso e hanno assunto, manco a dirlo, un quinto giornalista. Il quale – anzi, la quale: si tratta di una gentile signora – dovrà faticare non poco per trovare una notizia da diffondere al variegato mondo della stampa.