La cultura del sottosopra. Che ha esempi illustri, per carità. Basta saperlo. Le favole a rovescio di Gianni Rodari, per esempio. Che sono teoria e arte dell’invenzione, “Grammatica della fantasia”, come il maestro elementare Rodari scriveva nel suo saggio più noto. Un salto nell’immaginazione fatto apposta per capovolgere la visione del mondo.

Che succede se “un povero lupacchiotto porta alla nonna la cena in un fagotto” o se “Biancaneve bastona sulla testa i nani della foresta”? Erano gli anni Settanta e Rodari si poteva permettere di ribaltare il cattivo di turno e perfino di maltrattare le donne. Fosse anche una soave principessa già orfana di madre e vessata a morte dalla malefica matrigna. All’epoca di “politicamente corretto” non si parlava proprio. Figuriamoci di americanate come la “cancel culture”. Ancora eravamo a “una risata vi seppellirà”. Una risata. Non il ridicolo.

Chissà se i capolavori di letteratura per l’infanzia di Gianni Rodari li hanno mai letti nelle Camere di commercio d’Italia. Le quali – a giudicare dal sito camcom.gov.it – forse anche loro ritengono di essere “organi sussidiari dello Stato” come gli Ordini professionali. In particolare quelli delle professioni sanitarie che al momento, a causa di questa proclamata “sussidiarietà”, sono lacerati da controversie tra gli iscritti.

Chissà se la eco della “cultura patas arriba”, delle lotte di genere in Spagna negli anni formidabili della fine dell’era di Franco e della transizione “con juicio” ha mai raggiunto la Camera di commercio di Roma. Che con grande clamore e interminabile comunicato stampa “ha celebrato un evento unico, nel cuore della Capitale, assieme a illustri rappresentanti del mondo della cultura e dello spettacolo”.

L’evento di cambiare il nome al Tempio di Adriano “sede storica della Camera di commercio e gioiello architettonico dell’antica Roma”, trasformandolo in Tempio di Vibia Sabina e Adriano, in onore della moglie di Adriano e “in linea con la vera storia”. In occasione dell’intitolazione “dal forte valore simbolico”, il nome della donna preposto a quello dell’uomo, per un mese nel tempio verrà esposta anche la statua di Vibia Sabina. “Imponente statua restituita all’Italia, insieme ad altri 13 reperti archeologici nel 2007, in seguito a un accordo tra la direzione del Museum of Fine Arts di Boston e il Governo Italiano, grazie alle accurate indagini, svolte con successo, negli anni precedenti, dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale”. Nel comunicato il presidente della Camera di commercio di Roma sottolinea che “restituendo alla straordinaria figura di Vibia il ruolo che le apparteneva, si presenta per noi l’occasione per restituire a tutte le donne il giusto rilievo da loro avuto nella storia, a partire dai lunghi secoli della Roma antica”.

Ruolo e rilievo. Di Vibia Sabina e delle altre. Peccato che nel contesto nessuno abbia ricordato che il matrimonio di Vibia Sabina non fu propriamente “felice”. Non per problemi di Gender Equality. Ché la fama di Adriano per intelligenza, acume, conoscenze, era già leggenda in vita. Ma anche senza essere cultori dell’antichità classica, basta avere letto il romanzo “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar per sapere che l’imperatore era omosessuale. Uno splendido appassionato omosessuale, cultore delle arti e del potere. Ma non dell’animo delle donne, “l’eterno femminino”.

Il suo perduto amore fu l’adolescente Antinoo che morì annegato nel Nilo in circostanze misteriose. Forse non senza il coinvolgimento dell’imperatrice, sposa trascurata e senza eredi.  Adriano, travolto dal dolore, celebrò Antinoo in qualsiasi forma. Un’apoteosi che divenne culto. Divenne tempio nella città egiziana di Antinopoli, fondata nel nome dell’amato. Divenne costellazione in cielo. Senza contare le migliaia di statue sparse per tutto l’impero. I busti, le monete, i gioielli. Onori e gloria fino all’eccesso, come non mancarono di notare le cronache del tempo. Sembra che dopo la morte di Antinoo l’imperatrice venisse ancor di più tenuta a distanza.

Con queste premesse è legittimo chiedersi a chi l’imperatore Adriano avrebbe voluto legare in eterno il suo nome. Se avesse potuto scegliere.

A pensarci le istituzioni di Roma avrebbero potuto essere più “trendy”, più “gender fluid”, tenendo conto che la lingua latina ha pure il neutro che l’italiano non ha ereditato. Nel Tempio di Adriano avrebbero potuto rendere omaggio a una delle più celebrate coppie di fatto dell’intera storia Lgbt. Invece hanno optato per la coppia tradizionale legata a vincoli di forma.

Le parole sono pietre. Talvolta di paragone, talvolta di propaganda. Ma hanno un peso nell’influenzare la percezione della realtà. La cultura del sottosopra non tralascia la guerra in Ucraina. Ci mancherebbe. E’ come la faccenda dell’evacuazione, a detta degli occidentali, o della resa, a detta dei russi, del battaglione nazionalista Azov a Mariupol.

Dai cunicoli e dai sotterranei dell’acciaieria Azovstal dal 16 maggio in poi continuano a uscire combattenti, almeno 1730 di cui 80 feriti. I guerrieri Azov si consegnano alle forze armate russe che li trattano da prigionieri, li infilano in anonimi autobus diretti a campi di detenzioni o ospedali nella regione di Donetsk.

Al di là della retorica, stanno evacuando o si stanno arrendendo? Certo, possiamo continuare a considerarli eroi. Hanno resistito per oltre 82 giorni nell’acciaieria che si è rivelata una trappola. Saranno eroici “lettori di Kant”, come da vulgata occidentale. Nonostante le svastiche tatuate o sbandierate.  O il sole nero nazista che campeggia sullo sfondo del simbolo di Azov. Che è lo stesso sole, lo stesso segno distintivo usato dal diciottenne suprematista bianco a Buffalo, Usa, per firmare giorni fa la strage del supermercato, almeno dieci morti innocenti, più i feriti. Peccato che nessuno nel mainstream occidentale abbia prestato caso al sole nero apparso in contemporanea a migliaia di chilometri di distanza. Ma forse si tratta solo di un simbolo slavo. Anche in America. Se non addirittura di una metafora indoeuropea, proto-civiltà teorizzata dai linguisti. Vagheggiata ma ancora molto da studiare.

Se non fosse una tragedia la guerra d’Ucraina offrirebbe spunti ironici per guardare il mondo sottosopra. Per i nostri giornali, mai abbastanza schierati, “quel criminale di Putin è pazzo. O almeno malato. Grave. Sta morendo”. Un crescendo possibile, certo. Ma non documentato. Non è che, però, il nostro commander in chief Biden stia tanto meglio. E a ben guardare le immagini che ci rimanda la tv, le gaffe, le dimenticanze, i saluti a amici immaginari, la perdita di controllo corporeo davanti a Carlo e Camilla d’Inghilterra o sulla scaletta dell’aereo, neppure noi possiamo dire di stare tanto bene. Vatti a fidare. Di lui come dell’alleato turco Erdogan. Il quale blocca l’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia perché i due paesi scandinavi, soprattutto la Svezia, “sostengono organizzazioni terroristiche curde legate al Pkk e ospitano criminali in fuga dalla Turchia”.

Può essere che Erdogan col suo diniego voglia solo alzare il prezzo o prender tempo. Giova ricordare che i curdi sono il popolo senza terra per eccellenza. Divisi tra Turchia, soprattutto, e Siria, Iran, Iraq. Un’etnia, anzi una galassia etnica composita ma con una lingua e con tradizioni simili. Un‘etnia perseguitata da sempre, già dai tempi dell’impero ottomano. Di recente i peshmerga, i combattenti curdi hanno avuto il loro momento di gloria in Occidente per la tenace resistenza offerta all’avanzata dello Stato islamico e alla nera bandiera dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi.

Ma ora che altre emergenze hanno sostituito la minaccia islamica, nessuno cerca più i curdi, nessuno vuole intervistare le peshmerga, le guerriere donne che tanto colpivano l’immaginario collettivo. Sic transit gloria mundi.

La cultura del sottosopra, alimentata dalla memoria corta e dall’analfabetismo dei social, è un filone infinito. Per tornare al conflitto Russia-Ucraina basterebbe ricordare proclami di ferro e di fuoco di tutti o quasi i leader occidentali. Le sanzioni, il gas, lo Swift, il sistema bancario occidentale. Tanto tra il dire e il fare spesso c’è di mezzo il mare. Non solo quello di Azov. A volte anche gli oceani.

Il mondo alla rovescia ebbe un teorico. Il filosofo parigino Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, vissuto a cavallo della Rivoluzione francese. Secondo lui: “Se in Francia venissero meno, improvvisamente, i tremila individui che esercitano attualmente il potere non accadrebbe assolutamente nulla, in quanto essi potrebbero essere facilmente sostituiti. Se, invece, venissero a mancare i trentamila artigiani, scienziati e imprenditori più capaci ed esperti, il tracollo del paese sarebbe inevitabile”.