Nel centenario dalla nascita, diversi articoli, saggi e reportage televisivi hanno riproposto Leonardo Sciascia come uno degli scrittori più importanti del secolo passato. Lettore vorace delle sue opere, sul loro valore letterario non posso aggiungere nulla, non avendo idonea capacità critica. Posso ricordare, invece, il permanente valore della sua testimonianza civile e dell’impegno politico che improntò tutta la sua vita, indicandolo come impareggiabile maître à penser, un siciliano che ebbe l’orgoglio dell’appartenza e il rigore della denuncia per gli eccessi della sicilianità.

Lo scrittore, per qualche tempo, svolse un protagonismo diretto nella vita delle istituzioni, fece parte di assemblee elettive: il consiglio comunale di Palermo, prima. e la Camera dei deputati, poi. In quelle occasioni egli tentò di dare concretezza ad una visione della politica “nel senso etico- come scrisse – in quella confusione ed errore di volere scambiare la politica con l’etica”, non cessando mai di essere un “eretico”, uno che sceglie, che non accetta per fede, per conformismo ideologico e meno che mai per convenienza le regole di ingaggio di un gruppo, di un partito, di una fazione.

Nel 1975 i comunisti vollero impreziosire la loro presenza nel consiglio comunale di Palermo con lo scrittore di Racalmuto e con Renato Guttuso, due esponenti di assoluto rilievo dell’arte e della letteratura, uno spirito libero, un volterriano che non si lasciava incasellare in alcuna chiesa, fosse essa religiosa o politica e un intellettuale organico che militava, si schierava, che operava perché il partito -“moderno principe” – realizzasse gramscianamente l’egemonia sulla società.

Quando accettò la candidatura, Sciascia scrisse di voler fare come André Gide, il quale “si fece giudice per conoscere dall’interno il funzionamento della giustizia”. Volle, cioè, tentare di conoscere dall’interno i meccanismi propri della politica, di dare il suo contributo alla città nella quale viveva, di guardare più da vicino i democristiani, oggetto, specialmente quelli di Palermo, di sue dure critiche, di rapportarsi con quel mondo che aveva popolato uno dei suoi libri, “Todo modo”, nel quale veniva ritratto con quelli che egli riteneva fossero i propri caratteri: l’ipocrisia, la corruzione, l’attaccamento al potere, le lotte intestine e, in Sicilia, naturalmente la collusione con la mafia, una visione, questa, in larga parte coincidente con quella del partito comunista. A chi chiedeva quale fosse il suo programma, Sciascia rispondeva: “stare all’opposizione”. Ma quando iniziava la sua esperienza consiliare, i comunisti avevano già modificato la loro opinione nei confronti dei democristiani, apprezzavano, in quella fase, lo sforzo, disse uno dei loro maggiori esponenti, “di un’operazione di distacco dai vecchi richiami” e si apprestavano ad eleggere, come di fatto avvenne, un nuovo sindaco della città capoluogo in accordo con la Democrazia Cristiana, guidata da un esponente della corrente di Salvo Lima, da Michele Reina, che proprio per quella scelta e per il “distacco dai vecchi richiami” verrà ucciso dalla mafia.

Sciascia di lì a poco si dimise dal consiglio, non condividendo quella scelta, non potendo far propria la posizione dei comunisti che, per bocca del loro segretario Achille Occhetto, dichiaravano bastasse “che sulla carta (dell’invito a trattare) ci sia l’intestazione della Democrazia Cristiana e non guardo chi me la manda, anche se si trattasse di Lima”. In quel momento, e non solo in quel momento, ritenuto interlocutore credibile per essere poi indicato, in una alternanza di giudizi, non sempre privo di scelte strumentali, garante dei poteri mafiosi. Al momento delle dimissioni, Sciascia disse: “avrei voluto alzare la pietra per vedere se sotto c’erano dei vermi” e, a suo modo di vedere, non gli fu consentito. Quando, poi, raccontò che Berlinguer a lui e a Guttuso avrebbe detto di “essere a conoscenza di certi rapporti del terrorismo con la Cecoslovacchia”, la rottura dello scrittore con i comunisti divenne ancora più evidente e profonda. Egli fu smentito e querelato per calunnia dal segretario nazionale del PCI e Guttuso, chiamato a confermare la confidenza, tra la testimonianza alla verità e la fedeltà al partito, decise di smentirlo, arrivando a dargli del “mafioso”, inutile ed arbitrario tentativo di sfregiare colui che più di tutti aveva fatto conoscere al mondo la mafia e il suo potere criminale.

Eppure proprio su questo terreno Sciascia sarà bersaglio di accuse infamanti da parte del “comitato antimafia” che si era costituito a Palermo nel 1984, arcigno custode dell’ortodossia orlandiana, randello pesante e frondoso della “primavera” palermitana, tribunale severo che emanava sentenze inappellabili di collusione per gli avversari e rilasciava attestati di buona condotta per gli amici. Sul Corriere della Sera, nel gennaio del 1987, Sciascia pubblicò il famoso articolo sui “professionisti dell’antimafia” criticando, tra l’altro, i criteri utilizzati dal Consiglio superiore della magistratura per la nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala, una critica che oggettivamente si prestava ad equivoci, ma che, tuttavia, non voleva essere un attacco al magistrato. La reazione del “comitato antimafia” fu feroce ed ebbe, come di consueto, i toni propri dell’Inquisizione, analoghi a quelli di Juan Lopez de Cisneros  che dirigeva a Palermo il “sacro tribunale” e che fu protagonista, insieme al libero pensatore Diego La Matina della “Morte dell’inquisitore”. “Non ce ne voglia – scrissero quelli del comitato- l’illuminato uomo di cultura Leonardo Sciascia se questa volta con tutta la nostra forza lo collochiamo ai margini della società civile… Vivere nella tranquillità bucolica delle campagne racalmutesi è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Così vivendo si rischia di meno ma si diventa a poco a poco dei quaquaraquà”.

“Mi pare – commentò Sciascia – che coordinino interessi politici e stupidità” e, in un articolo dell’anno successivo su “La Stampa”, aggiunse “io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che la mafia”. Il professionismo dell’antimafia diventava terrorismo moralistico, fanatismo.

Un’ultima considerazione mi pare opportuno fare: lo scrittore che pure, come è stato ricordato in questi giorni di “rimemorazione” – uso una parola che egli volle come titolo per una manifestazione a Gibellina in occasione dei vent’anni dal terremoto- fu sempre molto critico con la Democrazia Cristiana, ad un certo punto, nei primi anni ottanta, capì che essa stava tentando di intraprendere una strada nuova “non in quanto partito- egli scrisse- ma attraverso un certo numero di singoli che ne partecipano. Per anni (la DC) ha dato alla mafia protezione, sicurezza e prosperità, oggi che vuole distaccarsene come non mai è accusata di esserci dentro. Qualcosa sta mutando, qualcosa è già mutata con buona pace di coloro che ancora non vogliono crederci, che vorrebbero non fosse vero e non per complicità o interesse ma per il gusto di continuare a parlarne e ad inveire”. La consueta severità dei giudizi, sulla Democrazia Cristiana non si trasformò mai in un atteggiamento settario, non impedì ad un uomo libero, ad un attento osservatore delle cose di Sicilia, di cogliere segnali importanti che pure tentarono, con alterni risultati e poi con la definitiva sconfitta, di trasformarsi, come scrivo ampiamente nella mia opera “La caduta”, in concreta azione politica, ma che non furono ritenuti autentici, meritevoli di apprezzamento e di sostegno da chi preferiva strumentalizzare le posizioni dell’avversario ed esaurire nella denuncia, anche fondata, della “questione morale”, il proprio impegno politico.

(Calogero Pumilia è stato deputato della Democrazia Cristiana ed è autore del libro “La caduta”’ edito da Rubbettino e da pochi giorni in libreria)