Il governo di Renato Schifani è chiaramente sbilanciato a destra. Schiacciato sulle impuntature dei patrioti, che negli ultimi mesi hanno trasformato la Sicilia nel proprio luna park. Fratelli d’Italia, oltre a far valere nelle urne l’effetto trascinamento garantito dalla Meloni, in proporzioni più esigue rispetto al dato nazionale, ha cavalcato il disappunto di Musumeci e del suo “cerchio magico”, esclusi da un secondo mandato, per chiedere qualsiasi cosa (e a qualsiasi costo). Rendendo impossibile ogni forma di diniego. Anche se non sempre la presunzione d’imporre si traduce nella certezza del fare.

Il primo episodio risale alla vigilia di Ferragosto, quando a 40 giorni dalle elezioni Regionali (anticipate), la coalizione di centrodestra si era impantanata nella ricerca di un nome, rischiando di sprofondare nella partita dei veti. E’ stato Ignazio La Russa, proconsole di Giorgia nell’Isola, a indicare un candidato in casa altrui: cioè Renato Schifani, di Forza Italia, ex presidente del Senato, con nessuna esperienza (o quasi) in termini d’amministrazione. E’ stato il miglior compromesso possibile, perché Schifani – doti diplomatiche a dismisura – non avrebbe mai tradito gli accordi sottoscritti con La Russa. E ha dovuto onorarli fino in fondo, ob torto collo, per evitare di consegnare l’Isola alla sciagura di nuove elezioni anticipate. L’addio a Musumeci, per tutta Fratelli d’Italia, è stata una manna dal cielo. Ha spalcato le porte a un lungo elenco di desiderata, obliterato da Roma; ha portato in scena personaggi mai visti, magari un po’ inesperti, per il solo fatto di avere in dote una rinuncia clamorosa: quella al trono d’Orleans.

L’addio di Musumeci è stato indolore per tutti, Musumeci compreso. Che da Roma ha potuto spernacchiare sommessamente il grande “rivale”, Gianfranco Micciché, guadagnandosi l’accesso al Senato e in prima linea, al governo, sebbene con un ministero indefinito. Il “militante” è diventato nel giro di poche settimane plenipotenziario. Ed è riuscito, fino in fondo, a garantire un contentino ad uno dei suoi fedelissimi. Il più fedele di tutti: Ruggero Razza. C’era lui nel pacchetto – qualcuno l’ha definita “clausola di salvaguardia” – stabilito con Renato Schifani. Più che altro la moglie, Elena Pagana. Divenuta assessore dal nulla, nonostante la tenerissima età (beata lei) e un’esperienza trascurabile: due anni e mezzo tra i banchi dell’opposizione (col M5s), altri due e mezzo fra gli “stampellisti” di Attiva Sicilia, ma con una presenza sempre più sparuta fra i banchi di Sala d’Ercole per la felice coincidenza del parto che l’ha resa mamma. Ha tentato di accreditarsi passando dalle urne, e non ce l’ha fatta, raccogliendo una manciata di voti nella sua Enna. E allora, perché assessore? “Perché lo diciamo noi”, sarà stata la risposta dei patrioti. Che avranno reso felice Musumeci e Razza, e scontenti tutti gli altri: a partire da qualche fedelissimo – forse – un po’ meno fedele, come Giusy Savarino o Giorgio Assenza, che i voti li avevano presi. E anche tanti.

A Pagana va il beneficio del dubbio: dovrà dimostrare sul campo di saperci fare. Come tutti del resto. Ad esempio Francesco Scarpinato, un altro che i siciliani, con tutto il rispetto del caso, non si erano filati. Se lo sono ritrovati al governo nonostante fosse giunto quinto nel collegio di Palermo, città dove già esercita da consigliere comunale. E per di più se lo ritroveranno al Turismo – lui è che un graduato dell’esercito – a gestire un portafogli smisurato come quello che, nello scorso quinquennio, ha tenuto occupato Manlio Messina. Che – casualmente? – è finito a fare il tifo per lui. Sarà uno dei suoi principali consiglieri. E perché Scarpinato? “Perché decido io”, sarà stata la risposta del ministro Lollobrigida, main sponsor dell’operazione. Il Cognato d’Italia, delegato della Meloni alle Politiche Agricole, non ha avuto dubbi e ha preferito osare. Indebolendo Schifani, che a quella nomina (e a quella di Pagana) aveva intenzione di rinunciare, e ne aveva tutto il diritto, per amore di regole e di coalizione. Macché: ha dovuto sorbirsi ogni cosa, dalla prima all’ultima, o la Sicilia sarebbe andata a rotoli. Ha vinto la responsabilità. Ha stravinto l’arroganza.

Per altro Fratelli d’Italia s’era aggiudicata anche la sfida per la presidenza dell’Ars, con l’elezione a mani basse di Gaetano Galvagno, “pupillo” di Ignazio La Russa, che però di politica e diplomazia ne mastica: ad appena 37 anni è stato capace di guadagnare voti e preferenze anche negli altri rami del parlamento siciliano, frequentato per lo più da opposizioni. Avrà il ruolo di arbitro e di massimo rappresentante di Sala d’Ercole. Diciamo che quattro dimostrazioni di forza – FdI non s’è vista assegnare solo la Sanità, ma il fatto che abbia scelto Schifani e non Micciché è una garanzia – potevano bastare. E invece no. C’è stato un sequel. Al momento della nomina delle commissioni, infatti, il principale partito della maggioranza ha messo a segno un altro colpaccio, aggiudicando la commissione Bilancio all’on. Dario Daidone, professione avvocato, che aveva già scaldato i motori nel Consiglio d’Amministrazione dell’Irfis prima di candidarsi alle Regionali. Gli basterà per imporsi nella commissione legislativa più delicata, che già a partire da questa settimana dovrà analizzare di tutto punto la proposta di variazioni di bilancio proveniente dal governo? Per uno alla prima legislatura all’Ars è come scendere nella fossa dei leoni. Perché proprio Daidone? Chiaramente “perché lo diciamo noi”, avranno esultato i meloniani. Fin qui capaci di imporre il possibile e l’impossibile agli alleati, determinando le sorti del governo e adesso anche del parlamento.

Ma i premi non sono finiti: il partito di Meloni & La Russa, infatti, s’è aggiudicata anche la presidenza della commissione Lavoro e Famiglia, la quinta, dove a dirigere le operazioni sarà un altro deputato alle prime armi, ma già addentro i sistemi della politica: si tratta dell’onorevole Fabrizio Ferrara, collega di Scarpinato al Consiglio comunale. La fortuna di avere un doppio ruolo è che diventi esperto in un baleno. Per altro Ferrara, come Pagana, era reduce da un’altra compagine politica: nel 2017 era stato eletto a Sala delle Lapidi con il Mov139 di Leoluca Orlando.  Ha compiuto il grande salto a settembre 2021, quando Giorgia già impazzava nei sondaggi. Gli è bastato un anno di frequenza per un triplo carpiato. Della serie: un’elezione val bene una commissione. Piccolo inciso: per contrastare lo strapotere di Fratelli d’Italia alla Regione, alcuni “moderati” – ‘La Sicilia’ faceva i nomi di Totò Cardinale, Nino Minardo e Raffaele Lombardo – starebbero cercando di creare uno scudo a Schifani, impedendogli di finire “sottomesso”. Ma anche su un eventuale partito del presidente – statene certe – qualche patriota avrebbe da obiettare: “Forse l’abbiamo detto noi?”.