Il ragionamento è talmente facile da apparire surreale. Potrebbe mai Silvio Berlusconi pensare di commissariare Forza Italia in Sicilia, cioè l’unica regione d’Italia in cui il partito conserva percentuali prossime al 20%? La risposta è no, o meglio… nì. Qualcuno, infatti, gliel’ha chiesto. Il Cav., negli ultimi mesi, ha sollevato il telefono più di una volta per rappresentare a Gianfranco Micciché, commissario regionale del partito, il “problema Sicilia”. La risposta è sempre stata uguale: “Presidente, ad averne problemi così…”. L’ultimo tentativo del Cavaliere ha mancato il bersaglio una ventina di giorni fa, mentre Micciché era riunito con alcuni deputati per lavorare al testo della Finanziaria. Suona il cellulare.

All’altro capo del telefono, in viva voce, un Berlusconi visibilmente scocciato per le pressioni ricevute dalla Capitale, in cui alcuni esponenti di grido, su tutti il nuovo coordinatore nazionale Antonio Tajani (definito da Miccichè un “capocorrente”) e il senatore Maurizio Gasparri, entrambi romani de Roma, chiedevano spazio. Spazio per cosa? Ovviamente per candidarsi in Sicilia alle prossime Politiche. Nel Lazio, con le percentuali da prefisso telefonico che si ritrova Forza Italia, almeno uno rischia di rimanere fuori. Mentre l’Isola, con l’attuale sistema elettorale e vista la riduzione del numero dei parlamentari, è l’unico feudo a garantire qualche seggio “certo”. Si tratterebbe, comunque, di un tentativo di appropriazione indebita. Di un’Opa in piena regola, metodo che Miccichè ha sempre osteggiato: della serie, la Sicilia ai siciliani.

Ma anche a Palermo c’è qualcuno che spinge per la sua destituzione: a partire da Giuseppe Milazzo, eletto a Bruxelles un paio d’anni fa (per una manciata di voti su Romano), e ora passato dall’altra parte della barricata. Rimprovera a Miccichè una gestione personalistica del partito e di abusare del “doppio ruolo” – coordinatore regionale e presidente dell’Ars -, per questo s’è dimesso dalla segreteria. Milazzo è il cavallo di Troia che altri dirigenti nazionali, fra cui l’ex presidente del Senato, Renato Schifani, e le fedelissime Anna Maria Bernini e Licia Ronzulli, avrebbero utilizzato per fare breccia nel Cavaliere e determinare un cambio di strategia. Quest’ultima, la Ronzulli, nel 2017 aveva proposto a Berlusconi di candidare Armao alla presidenza della Regione – progetto naufragato di fronte all’avanzata di Musumeci e al rischio di spaccare la coalizione – e poco dopo ha sostenuto la sua compagna, Giusi Bartolozzi, nella corsa per Montecitorio.

L’obiettivo, questa volta, è scalzare il commissario. Ma se nelle puntate precedenti Berlusconi si era limitato a chiedere a Miccichè il nome di uno che potesse prenderne il posto – allo scopo di spegnere le fiamme – stavolta propone un triumvirato. Con Stefania Prestigiacomo – che ha gentilmente declinato – oltre a Schifani e a Milazzo. Un’idea sgradita ai parlamentari regionali forzisti, che avevano già mugugnato per la bocciatura di Gabriella Giammanco come sottosegretario. E che, dopo aver ribadito la loro contrarietà al telefono, hanno scritto una lettera a Berlusconi per difendere l’operato di Micciché e accusare Milazzo di irriconoscenza. Tra le firme sul documento, però, mancavano quelle dei due assessori di punta, sponde consapevoli del tentato ribaltone: Gaetano Armao e Marco Falcone. Il primo, al netto della “tregua armata” degli ultimi mesi, non ha mai goduto di un rapporto privilegiato col presidente dell’Ars; il secondo, molto vicino a Gasparri, raccoglie attorno a sé i malpancisti che non si riconoscono nella gestione del commissario. Due assessori entrati nelle grazie del “partito di Musumeci”, che non sembrano più agire per nome e per conto di Forza Italia.

Micciché, che continua a godere di canali privilegiati col Cav., gli ha sempre spiegato che non farà passi indietro. A meno che non sia lui, Silvio, a cacciarlo direttamente. Un’ipotesi che Berlusconi, per la stima e i trascorsi insieme, non ha mai considerato. Così anche la proposta del triumvirato, nel corso della telefonata, s’ammoscia quasi subito. “Se Gianfranco non è d’accordo, non se ne fa nulla”, questa la morale. Micciché non vuole che il partito siciliano sia depredato. Intende salvaguardare i risultati che ha costruito con fatica, nonostante qualcuno gli remasse contro: i 14 deputati all’Ars, i 700 amministratori locali, la capacità di coinvolgere ogni provincia nell’azione di governo (di cui FI resta il principale azionista) e di fornire garanzie anche ai non eletti. Se ci sarà qualcuno in grado di dare continuità al progetto, che sia capace di portare avanti la missione e non disperdere il patrimonio accumulato, potrebbe farsi da parte e pensare solo all’Ars. Non prima. Berlusconi l’ha capito, i dissidenti dovranno farsene una ragione.