I suoi fedelissimi, stanchi delle angherie romane, hanno preso carta e penna e preteso più rispetto. Ma anche Gianfranco Micciché, dopo aver assistito in silenzio alla nomina dei sottosegretari e mandato giù il rospo, non ce la fa più a resistere. E punta al bersaglio grosso, nella speranza di aprire una riflessione dentro Forza Italia: “Berlusconi ha nominato Tajani coordinatore nazionale del partito. Ma lui, due ore dopo, ha ritenuto di fare il coordinatore nazionale della sua corrente. Dimenticandosi di prendere in considerazione la Sicilia, l’unica regione dove FI fa segnare risultati in doppia cifra. In politica vige una regola – spiega il commissario regionale azzurro –: per essere leader, devi essere leader di tutti. Altrimenti sei solo un capocorrente. Tajani ha mostrato tutta la sua inadeguatezza – E’ come gli chiedessi di fare l’amministratore delegato della Fiat e lui si occupasse solo di Cinquecento”.

Ha avuto modo di dirglielo?

“L’ho sentito fino al giorno prima delle nomine. L’ho supplicato di non rinunciare a fare il leader di tutti. Ma mi sembra quasi obnubilato… E’ come se qualcuno gli avesse fatto il lavaggio del cervello, portandolo a commettere errori madornali. La sua è una vendetta rispetto alla nomina dei tre ministri. I cinque-sei sottosegretari che ha selezionato fanno parte della sua cricca”.

Giorgio Mulé è di Caltanissetta.

“Quando ha iniziato a circolare il suo nome, l’ho chiamato e gli ho detto: ‘Caro Giorgio, noi siamo amici. Ma se ti fai passare per siciliano ti tolgo il passaporto…’ (sorride). Provo una grande stima nei confronti di Mulè e sono certo che farà bene il suo lavoro. Ma non vive più in Sicilia da una trentina d’anni. E qui facciamo politica, non distribuiamo premi Nobel alla carriera. Serve gente che lavori per uno scopo ventiquattr’ore al giorno”.

Quali sono state le sue proposte a Tajani?

“La senatrice Giammanco. Quando ho fatto il suo nome, mi sono detto stupito per il fatto che non me l’avessero proposto loro… Li ho provocati un po’, ma ribadisco un concetto: Forza Italia a livello nazionale vale fra il 6 e il 7%. Senza di noi, non arriverebbero al 5. Con l’attuale legge elettorale, rischierebbero di non prendere nemmeno un deputato”.

Perché la Giammanco?

“Perché alle scorse Europee le venne chiesto di candidarsi, pur sapendo di non avere alcuna chance di elezione. Da donna di partito ha dato il suo contributo, consapevole che si trattasse di una campagna elettorale difficile, su un territorio vasto (Sicilia e Sardegna), e per questo assai costosa. Ritenevo che lo sforzo andasse premiato. E’ così che funziona la politica, di solito”.

Ha fatto anche il nome di Armao?

“Sì, ho indicato Armao. Abbiamo fatto delle chiamate insieme. C’è stato un momento in cui si diceva che i grillini avrebbero avuto meno sottosegretari. Così, pensando di fare una trattativa fra persone normali e non fra bande, avevo proposto la candidatura di Armao come tecnico e non in quota Forza Italia. Il nome di Forza Italia restava la Giammanco. Abbiamo lavorato per provare a ottenere questo risultato, a Tajani ho sollecitato entrambe le situazioni. Ho parlato anche con la Bernini. Ma non ci hanno ascoltato”.

E adesso che succede?

“Non c’è dubbio che a questo punto la questione si complica. E’ evidente che noi ci riteniamo un partito autonomo rispetto al resto d’Italia: da un lato perché siamo un’Isola, dall’altro perché abbiamo il 17%, come nessun altro. Eppure a gestire tutto ci sono Tajani, la Bernini e la Ronzulli: cioè Roma, Bologna e Milano. Questa nuova reggenza non si è mai occupata di Sud. Mi hanno anche accusato di fare il tifo per la Carfagna…”.

Si spieghi.

“Dopo la nomina dei ministri, ho espresso la mia soddisfazione per avere Mara alla Coesione territoriale che – lo ricordo – è un Ministero che inventammo io e Gianni Letta nel 2001. Dopo il fallimento di Provenzano, che assieme a Boccia ha firmato un accordo delinquenziale per la Sicilia, mi sembrava un miracolo che due dicasteri così rilevanti, il Sud e gli Affari Regionali, fossero finiti alla Carfagna e alla Gelmini. Ricordo che quella stessa sera chiamai Musumeci per tranquillizzarlo: saremmo passati da due ministri del Pd, che non vedevano l’ora di vederci fallire, a due di Forza Italia, che invece ci avrebbero aiutato”.

Il discorso delle correnti non rischia di essere un po’ esasperato? Anche la Carfagna, nell’ultimo periodo, è stata critica con Berlusconi e con la gestione del partito.

“Per gli stessi motivi che portarono me a fondare Forza del Sud. Cioè, degli atteggiamenti ostili da parte di qualcuno. Ma Mara non ha mai lasciato il partito. E’ rimasta pur avendo mostrato forti perplessità. I suoi incontri con Renzi sono una montatura giornalistica”.

E’ di nuovo tentato da un partito del Sud?

“Nessuna tentazione, oggi sono più serio e più saggio di quindici anni fa”.

L’ex Ministro Calogero Mannino ha spiegato che “l’assenza di esponenti siciliani nei posti chiave dimostra che i dirigenti dei partiti in Sicilia contano poco”.

“Ha ragione. Io, ad esempio, ho dimostrato di non valere nulla. Ma, in fondo, so che non è così: siamo stati penalizzati da una guerra fra bande”.

Teme davvero che l’assenza di rappresentanti siciliani nel sottogoverno possa risultare decisiva nel drenare le risorse dal Recovery Fund?

“Dipende molto dal governo regionale e dalla deputazione parlamentare. Se a Roma fa quadrato, abbiamo una speranza. Ma se ognuno ascolta il proprio partito, siamo rovinati. Non mi resterebbe che implorare tutti i giorni Santa Rosalia perché qualcuno rifondi Grande Sud o Grande Sicilia. Però non sarò io a farlo”.

Ha detto di aver parlato coi ministri di Forza Italia dell’accordo Stato-Regione. Secondo lei c’è la possibilità di cambiarlo?

“L’accordo va cambiato. Domani scade il termine per l’approvazione del Bilancio e non siamo in grado di rispettarlo. Quindi bisognerà incontrare il governo perché stiamo già venendo meno ai patti. Ma vorrei dire una cosa: la leale collaborazione a cui si appellava l’ex ministro Boccia deve valere sia in entrata che in uscita. E non mi risulta che lo Stato abbia mai rispettato gli accordi firmati negli anni, a partire da quelli relativi all’attuazione dello Statuto. Compresi quelli di Crocetta, che ritenevo potessero avvantaggiare Roma. La verità è questi accordi si fanno con la pistola puntata alla tempia”.

Il blocco delle assunzioni è il capitolo che la preoccupa maggiormente?

“In una fase come quella che stiamo attraversando, ogni questione rischia di apparire enorme. Quella delle assunzioni lo è. Il nostro compito non è conservare l’attuale classe dirigente fino a 90 anni, come vorrebbero D’Urso e company, ma rinnovarla. Altrimenti succede quello che è accaduto col click day: che nessuno capisce come funziona un programma… Anch’io faccio parte di questa classe dirigente un po’ “andata”, ma non sono alla guida di un dipartimento. Fare politica non presuppone capacità digitali, ma abilità di pensiero. Altrimenti me ne sarei già andato. Inoltre, c’è un sistema organizzativo della Regione su cui andrebbero scritti libri. Mentre in un giornale o in un’azienda privata si può crescere in base alle proprie abilità, o a ciò che si dimostra sul campo, alla Regione puoi essere il più bravo al mondo, ma resti comunque un funzionario. Non puoi essere promosso. Altrimenti non ci saremmo ridotti ad avere un direttore del Dipartimento alla Programmazione (Federico Lasco) che arriva da Roma. Vietarci di assumere, come avviene dal ’94, significa farci fallire”.