Il tratto di strada compreso fra Via Mariano Stabile e via Pignatelli Aragona, nei pressi della piazzetta Francesco Napoli, dove a inizio ‘900 i Florio stabilivano la sede del loro giornale, si chiamerà “Via giornale L’Ora”. Domenica, nel centenario della nascita di quel grande uomo e direttore che fu Vittorio Nisticò, a Palermo si terranno le celebrazioni – più che di un giornale – di una grande scuola che Claudio Fava non esita a definire “irripetibile”. Come sono irripetibili le condizioni da cui si origina quel modo nuovo, giusto, popolare e sfrontato di fare informazione. Di indagare la mafia. Di far compiere alla società civile un passo importante in termini di conoscenza e consapevolezza.

E siccome le parole non bastano per descrivere un’epopea, Claudio Fava – giornalista, ma anche politico e presidente della commissione regionale Antimafia – ha scritto la sceneggiatura di una fiction (in dieci puntate) che Mediaset trasmetterà nel 2020. E che si riferisce a una porzione di vita del giornale L’Ora di Palermo: dal 1954 al 1958, dall’insediamento di Vittorio Nisticò fino all’attentato, opera di Liggio, che distrugge le rotative della tipografia. La sceneggiatura è il racconto di “una delle più straordinarie sfide giornalistiche che ha conosciuto il mondo nel dopoguerra, che si è collegata a Palermo a partire dagli anni ‘50 e ha messo insieme delle condizioni irripetibili”.

Quali?

“Da una parte il talento di Vittorio Nisticò, un meridionale che va a Roma e torna forte di un’esperienza su una testata nazionale importante come l’allora “Paese Sera”. Un uomo che ha la capacità di capire che L’Ora non è soltanto un quotidiano del pomeriggio, ma può diventare un’accademia di giornalismo, di scrittura e di investigazione sulla realtà, sulla vita e sulla società. Come non era mai accaduto sulle pagine di un giornale. E’ una sfida di giornalismo moderno, contemporaneo. La grafica, la scrittura, il modo in cui si entra nelle vene aperte della società. Non è soltanto un giornale antimafia, ma un racconto spietato e rigoroso di cos’erano Palermo e la Sicilia in quegli anni. Nisticò è dotato di una forza quasi epica”.

E la seconda condizione?

“Il fatto che si sia trovato con una ciurma, un equipaggio di giornalisti che qualsiasi direttore avrebbe voluto con sé. Giovani determinati, brillanti, capaci, con una qualità di scrittura straordinaria. Ragazzi che a trent’anni hanno raccolto i semi di questa sfida, in un momento in cui fare giornalismo era epico, difficile e anche doloroso. L’Ora è un giornale che porta addosso le tracce di molti dolori. Queste due condizioni, Nisticò e la sua squadra, fanno sì che la storia de L’Ora non sia soltanto un racconto sulla Sicilia degli anni ’50 – la mafia che si fa imprenditrice e lancia l’assalto a Palermo, la corruzione sistemica, un sistema di potere che raggiunge la propria condizione di sé più alta e più perfetta – ma introduce una forma nuova di racconto. Disancorandolo dalle reticenze, dalle formule tradizionali di un giornalismo che non si era mai confrontato col senso e le misure dell’inchiesta. E’ in questo periodo che nascono le prime inchieste di mafia”.

Perché è così attratto da questa storia?

“La forza civile e professionale di un direttore come Nisticò e la passione e il rigore professionale del suo equipaggio, hanno reso quella de L’Ora una storia inimitabile. Per uno come me, che è stato giornalista in Sicilia negli anni successivi, era la redazione che tutti sognavano di frequentare. In qualche modo anche la mia storia professionale con “I Siciliani”, anche e soprattutto quando non ci fu più il direttore (il papà Giuseppe), ha raccolto i segni di quella esperienza che ci aveva preceduto di vent’anni almeno. Penso a mio padre e a Nisticò come due grandi giornalisti, direttori, ma anche maestri di mestieri e di vita”.

Qual è la genesi di questo progetto televisivo?

“E’ un progetto antico, un’idea coltivata nel corso di diversi anni. Si è costruita una proposta produttiva di assoluta eccellenza che vede, assieme a Indiana Production e a Mediaset, due case straniere in Francia e in Germania che hanno acquistato i diritti sulla carta, cioè soltanto per la qualità dell’idea”.

Un comitato di ex redattori del giornale, capitanato da Marcello Sorgi, ha avuto da ridire sulla fiction. Si è parlato di “riferimenti storici confusi e travolti” e di “singoli protagonisti ridicolizzati”. Da dove deriva questa forma di paura?

“Credo da una valutazione frettolosa, distratta e non serena. La vicenda umana collettiva che viene fuori da questa narrazione ha una forza straordinaria. Chiunque vedrà questa serie, se ha voglia di fare il giornalista, dirà “io voglio diventare come questi”. Altro che ridicolizzare. C’è un’epica umana, civile, morale e professionale che io considero eccezionale. Qui non parla lo sceneggiatore, ma Claudio Fava. Perché questa è anche la mia storia, so cosa ha rappresentato in termini di sacrifici personali e di responsabilità collettiva. Anche la redazione de L’Ora era composta da donne e uomini che avevano passioni, debolezze e allegrie. Quando ho scritto il film su Impastato, non ho rappresentato un’immaginetta senza macchia né paura, ma quella di un ragazzo che andò incontro alla morte con le proprie paure e la propria solitudine. Questo serve a uscire dal film e ad entrare nella vita vera, che in questo caso è una vita collettiva di grande forza civile, morale e professionale”.

Lei ha detto che la fiction per forza di cose è influenzata da scelte drammaturgiche.

“Quando si vedrà realizzata questa serie televisiva, ci si accorgerà come ciascuno dei personaggi, tutti – dal giovanissimo fotografo in calzoncini Petyx al grande direttore Nisticò – ne escono come figure di un’epica involontaria ma reale, per come seppero interpretare quel pensiero e quegli anni. Ho scelto di parlare di personaggi “liberamente ispirati” perché alcuni nomi sono stati cambiati, e alcune parti narrative allargate, ma tutto dentro un rispetto totale della forza morale di ciascuno di quei giornalisti”.

Gli anni dal ’54 al ’58 si riferiscono alla prima generazione dei giornalisti de L’Ora, che non ci sono più. Come fate a rappresentarli fedelmente?

“Fare dieci puntate di una fiction è molto più complesso che inventarsi un documentario o un tv movie. Bisogna entrare dentro l’arco umano e privato dei personaggi. Abbiamo utilizzato grande scrupolo nel tracciare la figura professionale, morale e umana di Nisticò, quella che cerchiamo di conservare nel modo più rigoroso, anche attraverso le cose che ci sono state raccontate da colleghi che all’epoca non c’erano, ma sono passati per le generazioni successive. Molti ci hanno consegnato ricordi straordinari: dalle colazioni fatte col Bourbon più che col cappuccino, all’irruenza fisica e al rigore professionale assoluto del direttore; dalle lezioni di mestiere che ha saputo dare, a questo suo mito di ascoltare la voce della gente e realizzare un giornale che aveva una sua autonomia e una sua libertà anche rispetto a una proprietà importante, ossia la società che gestiva i giornali legati al Partito Comunista”.

Qual è il contributo dato dal giornale L’Ora alla coscienza civile e in termini di lotta alla mafia?

“E’ un contributo enorme: intanto perché costringe tutti a osservare la realtà con uno sguardo meno accondiscendente, meno disposto alle mediazioni culturali. Il racconto che fa di Palermo L’Ora è il racconto della borghesia palermitana, e non soltanto della mafia che va all’assalto della città. E’ un racconto sul potere. E quando il potere non è più soltanto una parola, ma il suo è un racconto che avviene giorno per giorno, in modo popolare – come imponeva la scrittura e la grafica de L’Ora – e non altezzoso o aristocratico, bensì con la capacità di arrivare a tutti, è una cosa che cambia il senso comune perché restituisce consapevolezza, toglie alibi, rappresenta punti fermi”.

E cosa ha lasciato, invece, ai giornalisti e ai rappresentanti di questa accademia?

“Queste vicende si concludono sempre con una diaspora, in cui ognuno segue la propria strada professionale altrove. Ma in questo caso tutti conservano quello spirito, il senso di quel mestiere. Come se il punto d’origine, il punto di partenza, la matrice, il senso profondo non di appartenenza a una tribù, ma a un’idea di giornalismo, fosse una cosa che ti porti dietro. Io l’ho notato con me e con i miei amici de “I Siciliani”, che sono andati a lavorare in luoghi e città diversissimi, ma in tutto quello che hanno scritto negli ultimi trent’anni trovo l’imprinting di Giuseppe Fava e dei tempi andati. Ciascuno di loro resta portatore dei segni profondi di questo mestiere”.

Sul quotidiano L’Ora ha influito anche il contatto col mondo della cultura. Quanto, secondo lei?

“Nella fiction raccontiamo un pezzo della storia, fino alla bomba di Liggio del ’58. La cultura arriva dopo e ha un ruolo fondamentale. L’Ora è un giornale che si abbevera non alla cultura da “terza pagina” ma alla cultura che si fa scrittura, che si fa lettura delle cose, intervento, opinione, critica. A quello che è stato il più importante cenacolo attivo, e non soltanto contemplativo, che ci sia stato in Sicilia. Da Sciascia a Dolci a Guttuso. Anche i giornalisti sono diventati degli intellettuali a tutto tondo, nel senso gramsciano del termine, senza perdere la loro qualità e capacità di giornalismo”.

Esiste oggi una scuola di giornalismo che si avvicina a L’Ora?

“No. I germi, i principi e gli elementi costitutivi di quell’esperienza si ritrovano in molte redazioni, in molte città, ma faccio fatica a pensare a un giornale che rappresenta ciò che è stata L’Ora negli anni ’50, ’60, ‘70, o “I Siciliani” negli anni ‘80. Quelle erano davvero delle occasioni irripetibili, in un tempo in cui l’informazione era un sistema complesso e assoluto. Oggi l’informazione arriva attraverso cento altri canali, molto più superficiali, più semplici e più fruiti, e vengono meno anche le condizioni per fare di una redazione un luogo di riferimento civile e culturale come all’epoca. Quando il giornalismo era ascolto e scrittura”.