Continuare a versare sangue non servirà alla Sicilia. Altro che diventerà bellissima. La Regione immaginata da Musumeci & co. prima di metterci piede, semplicemente non esiste. Non può esistere. L’ente è un vecchio carrozzone che si porta dietro decenni di sprechi e clientele, e i politici sono sempre più inclini al vizio della lagna: è colpa di chi c’era prima. E dello Stato, va da sé. Un minuto dopo aver firmato il nuovo accordo con Roma – un patto teso alla razionalizzazione della spesa – qualcuno l’ha definito un “cappio al collo”, giustificando i misfatti della Regione, e reclamando, piuttosto, ulteriori benefici. Immeritati. Come se il fatto di aver potuto spalmare in dieci anni, anziché tre, un miliardo e settecentomila euro di disavanzo, frutto di errori contabili perpetrati negli anni da governi di tutti i colori, non sia già un regalo infiocchettato di tutto punto. Con la nuova sessione di Bilancio alle porte, un Bilancio più vuoto della classe dirigente che ha il compito di costruirlo, una domanda sorge spontanea: ma a che serve la Regione?

Anche nel prossimo esercizio, venendo meno 300 milioni di entrate per gli effetti della pandemia, l’assessore Gaetano Armao potrebbe riproporre il vecchio trucco dei fondi europei: cioè legare alcuni capitoli di spesa alla riprogrammazione di risorse extraregionali che sono state pensate per altro, ad esempio per finanziare degli investimenti che, nella maggior parte dei casi, in Sicilia non sono ancora “cantierabili”. Esattamente come un anno fa, quando si decise di ridurre la Finanziaria a un mero esercizio di stile. Legando il miliardo e mezzo della “manovra di guerra”, quella volta in funzione anti-Covid, a procedure farraginose che la commissione europea da un lato e lo Stato dall’altro, hanno dovuto legittimare: trasformando grossi investimenti infrastrutturali in patetici “buoni spesa” o prestiti a fondo perduto. L’Europa ci dà i soldi per le cose serie, e noi ci ritagliamo le mancette, è questo il senso. Un tentativo che ha visto parecchi incidenti di percorso e un risultato certo: cioè che a distanza di nove mesi pochissime misure dell’ultima Legge di Stabilità sono state attuate.

La Regione ha firmato una serie di cambiali in bianco (alle imprese, agli artigiani, agli agricoltori, e persino alle famiglie indigenti) ed è sparita nella notte. A distanza di qualche mese si trova di fronte un’altra Finanziaria – altro giro, altra fregatura – e “minaccia” di scriverla con la stessa nonchalance. Sfiorando il patetico se, come si teme, dall’esame di parifica della Corte dei Conti dovessero emergere altre sorprese. In quel caso, c’è da scommetterci, troveranno un alibi, e andranno avanti nello stesso, identico modo. Garantendosi qualche post su Facebook, per spiegare quant’è impegnativo ritrovarsi a Pergusa a lavorare insieme; e lasciando che il resto delle promesse venga inghiottito dal tempo che resta da qui a fine legislatura. Tanto chi se ne accorge… I siciliani ansimano per i morsi della pandemia, ma Armao spiega che “non si poteva fare di più” – ma più di cosa, ci perdoni? – e che al resto avrebbe pensato lo Stato (allora lasciamo perdere la Finanziarie, no?).

E così torna la domanda: a che serve la Regione? Forse a mantenere in vita vecchi carrozzoni, che garantiscono stipendi e privilegi agli “amici degli amici”, a lucrare su casse già asfittiche, ad alimentare contenziosi, facendo emergere nuovi incarichi per commissari straordinari o liquidatori. Qualcuno spieghi la funzione aggiornata di Sicilia Digitale, se a realizzare le piattaforme per erogare la cassa integrazione in deroga o i soldini del Bonus Sicilia sono aziende esterne e strapagate; o l’utilità della Società Interporti Siciliana, o dell’Esa, o del Parco Tecnologico Scientifico. Musumeci aveva pensato di imprimere una svolta, poi ha lasciato perdere. Lo Stato, a distanza di un anno dalla prima bozza d’accordo, ci ha sbattuto in faccia la realtà: non è stato fatto nulla per razionalizzare le partecipazioni societarie o chiudere le liquidazioni degli enti in dismissione. Bisogna ricominciare daccapo, ottenendo da quelle voci un risparmio complessivo del 20% per ognuno dei dieci anni di cura dimagrante che ci è stata imposta. Inoltre, bisognerebbe snellire la struttura amministrativa, riqualificare il personale, abbattere i costi degli affitti. Cose che non si sono mai fatte: nel 2021 ci costeranno “solo” 40 milioni, nel 2029 addirittura 300: sono soldi del bilancio che non vanno spesi. Ma accantonati, messi da parte per chissà cosa. Un’umiliazione.

Musumeci e Armao sono sempre alla ricerca di una furbizia, del modo più facile per sfangarla (“Il governo regionale firma accordi che sa già di non rispettare”, ha segnalato Antonello Cracolici, deputato del Pd, a Buttanissima). L’accordo di gennaio con lo Stato è solo l’ultimo della serie. Quelli precedenti sono stati disattesi, e ogni volta Roma è costretta a chiederci qualcosa in più, e noi a concederla. Tanto poi non se ne fa nulla. Chi s’indigna per questa cessione di sovranità, non vuole ammettere – ma in realtà lo sa benissimo – che è l’ennesima puntata di una telenovela infinita, dove gli interpreti recitano a soggetto. Dissimulano rabbia e collaborazione istituzionale a seconda del copione. Ma questo teatro non serve a rilanciare servizi e investimenti, ma per vivere alla giornata. Per conservare gli scranni e il potere. Senza alcuna possibilità di incidere sul piano delle decisioni, dell’iniziativa, della programmazione. Forse aveva ragione Buttafuoco con la sua provocazione di “commissariare la Regione” una volta per tutte.

Anche se qualcuno non s’arrende, e ribalta la questione. Prendendo le difese dei siciliani, e spingendo la politica a muoversi per la piena attuazione dello Statuto. Che all’articolo 36, recita: “Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del lotto”. E all’articolo 38 ribadisce: “Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nella esecuzione di lavori pubblici. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale”. Un po’ di assistenzialismo travestito da legge, di cui mancano però le norme attuative. Discorso sfiorato in aula, durante il recente dibattito sull’accordo Stato-Regione dai deputati di Attiva Sicilia (gli ex grillini): “Sull’accordo sul disavanzo della Regione c’è poco da esultare, perché siamo solo all’inizio di un percorso. L’intesa avrà senso solo se si avvierà il tavolo per il riconoscimento del gettito spettante alla Sicilia. Chiediamo al governo regionale di inserire, nell’accordo finanziario con il Governo nazionale, il riconoscimento integrale del gettito dell’Iva, che costituisce per i siciliani un riscatto parziale per la mancata piena attuazione degli articoli 36, 37 e 38 dello Statuto Siciliano”.

L’opportunità dello Statuto – che un giorno dà e l’altro toglie – resta tuttavia sullo sfondo dell’attuale dibattito politico. Una prospettiva disincantata (ma incagliata) che non incide sulla nostra sopravvivenza. Che nessuno può garantire: né Armao, coi suoi magheggi per far quagliare i bilanci (ma è davvero necessario un altro anno di peripezie e magre figure?), né Musumeci, che sui conti – non avendo molto da dire – fa parlare e agire il suo vice. Il presidente preferisce rifugiarsi nei salotti televisivi, maneggiare la pandemia (talvolta in modo schizofrenico), ergersi a normalizzatore e fustigatore del suo popolo, inaugurare le fiere del cavallo ad Ambelia, portare a termine il proprio ruolo di rappresentanza senza sporcarsi troppo le mani. E non chiedetegli perché un siciliano dovrebbe rivotarlo: il colonnello Nello potrebbe sempre rispondere che è una persona perbene e con la schiena dritta. Anche se non ha un centesimo da promettere.