Caterina Chinnici ne sarebbe nauseata. Nella nuova Ars ci sono i deputati di Cuffaro, gli amici di Dell’Utri, e vecchi politici che si erano persi nelle pieghe della giustizia, da cui sono riemersi dopo anni di calvario. È il caso (diretto) di Gaspare Vitrano, secondo eletto di Forza Italia in provincia di Palermo; e, indirettamente, di Raffaele Lombardo, uscito indenne da un processo infinito per concorso esterno, che ha portato al parlamento siciliano (almeno) cinque deputati, fra cui il nipote.

La questione morale – o meglio: la cultura del sospetto alimentata da certa sinistra e dai 5 Stelle – alla prova dei fatti non regge più. S’era visto a Palermo, in occasione delle ultime Amministrative. Gli arresti della vigilia, nei confronti di un candidato di FI (Pietro Polizzi) e di FdI (Francesco Lombardo), crearono qualche imbarazzo al candidato sindaco Roberto Lagalla, ma nulla di più. L’ex assessore della giunta Musumeci, che per altro in campagna elettorale era stato tampinato con l’accusa di ‘essere amico’ di Cuffaro e Dell’Utri, ottenne un’affermazione ampia e senza macchia, vanificando la strategia degli eredi di Leoluca Orlando – quelli che il sospetto è l’anticamera della verità – di affibbiargli una brutta nomina.

Ma il gioco delle anime belle non è riuscito nemmeno alle Regionali. Stavolta l’ispiratrice era stata Caterina Chinnici, candidata governatrice del Pd, magistrato in aspettativa, che aveva esautorato dalle liste del suo partito alcuni componenti solo perché “scomodi”: uno su tutti, Giuseppe Lupo. Il deputato uscente, implicato in un processo per corruzione (ancora alle fasi iniziali) si è fatto da parte senza fiatare, nonostante l’assemblea provinciale del Pd ne avesse accertato l’integrità sotto il profilo costituzionale (e per lo Statuto interno). Per lo stesso motivo di Lupo – essere finiti nel tritacarne giustizialista – s’erano dovuti arrendere due esponenti del Pd etneo, Angelo Villari e Luigi Bosco, entrambi ex assessori della giunta Bianco; entrambi alle prese con il processo sul buco di bilancio provocato al Comune di Catania dalla gestione dell’ex sindaco dem. Entrambi approdati nella lista (sbagliata) di Cateno De Luca, dove hanno mancato l’elezione: Sicilia Vera non ha raggiunto il 5 per cento su base regionale. Lupo, invece, s’è rifatto ampiamente: non solo procurandosi parecchi elogi per la signorilità, ma avendo fatto eleggere Mario Giambona a Palermo (anche se il seggio rimane conteso con un esponente dei Popolari e Autonomisti).

E qui veniamo all’attualità. Caterina Chinnici, in quanto terza miglior perdente, non avrà un seggio all’Ars (anzi, è già scomparsa dalla vista). In questo modo potrà evitare incroci pericolosi coi nuovi esponenti della Dc di Totò Cuffaro. Un uomo condannato in Cassazione per favoreggiamento, che non ha mai perso – nemmeno dopo gli anni durissimi a Rebibbia – la passione per la politica. Dopo aver ceduto alle lusinghe del Burundi, l’ex governatore s’è ripresentato ai nastri di partenza di una competizione elettorale e ha piazzato la sua bandierina sia al Comune di Palermo (eleggendo tre consiglieri, e piazzando un giovane assessore) sia all’Assemblea regionale, dove gli sono scattati cinque seggi (per almeno un paio d’assessori?). Cuffaro in campagna elettorale ha riempito sale e teatri. Ha ricominciato a vasare a destra e a manca. Aveva scontato la gogna dell’antimafia chiodata (ma inconsistente) qualche mese fa, durante il processo di riavvicinamento alla politica, da uomo libero ma ineleggibile a qualsiasi carica. Cuffaro oggi fa il direttore d’orchestra, detta la linea, lima le liste, e tanto gli basta. Ha persino rispolverato la DC, sottraendola alle polveri della storia.

Nel prossimo parlamento regionale, non mancheranno nemmeno gli amici degli amici. Ad esempio quelli di Dell’Utri. Ne è un esempio Riccardo Gallo Afflitto, eletto nell’Agrigentino con Forza Italia, ma già assegnato al listino di Schifani alla vigilia delle elezioni. Si tratta di un fedelissimo dell’ex senatore palermitano, quest’ultimo condannato per mafia. A rimettere piede in aula dopo 11 anni di calvario sarà anche un altro azzurro: Gaspare Vitrano. Una vecchia conoscenza della politica siciliana. Nel 2011, dopo aver ricevuto oltre 13 mila preferenze (militava nel Pd dopo il trasferimento dalla Margherita), venne arrestato per una vicenda di corruzione e decadde da onorevole. L’accusa, però, non ha retto al vaglio dei giudici e Vitrano è stato assolto in Cassazione, con sentenza piena e definitiva, nel febbraio di quest’anno. Anche qui la cultura del sospetto non ha attecchito, e i palermitani l’hanno tributato di oltre 8 mila preferenze. Secondo solo all’inarrivabile Tamajo. A proposito di inarrivabili: Luca Sammartino, oltraggiato in pubblico da Musumeci (“Spero che di lui si occupino altri palazzi”), ottiene un altro record di preferenze e torna in parlamento nonostante un paio di processi che pendono sulla sua testa (per corruzione elettorale).

Un altro che ha subito un calvario simile a quello di Vitrano, con accuse persino più infamanti, è l’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo, che solo pochi mesi fa (dopo dieci anni di processi celebrati, annullati e poi celebrati di nuovo), ha chiuso le sue vicende giudiziarie che, secondo la Procura, lo vedevano protagonista di un patto con la mafia e di corruzione elettorale. Lombardo, che nel 2012 si era dimesso da governatore, ritirandosi quasi del tutto dalla politica per difendersi nelle aule di tribunale, solo nel corso di questa campagna elettorale è tornato a organizzare eventi e kermesse. Ha sfidato a muso duro i sondaggisti che lo davano fra il 3 e il 4% e, ancora una volta, ci aveva visto giusto: la lista dei Popolari e Autonomisti, rafforzata dalla presenza di Saverio Romano (un altro che ha avuto diversi procedimenti giudiziari, di cui l’ultimo – un’inchiesta per frode sulla fornitura di dispositivi sanitari – ancora in corso), ha superato abbondantemente la soglia di sbarramento, portando all’Ars cinque deputati (o forse sei). Tra questi il nipote di Lombardo, Giuseppe, ottimo assessore al Comune di Catania, e anche lui finito nel tritacarne per la sua parentela scomoda.

Ma se c’è una cosa che i siciliani non si bevono più, e questo voto per le Regionali lo dimostra, sono le storielle di gogna e sputtanamento. Che, tradotto sui media, vuol dire ‘impresentabili’. Renato Schifani ne è l’esempio più calzante: tutti, in campagna elettorale, hanno tirato fuori il suo coinvolgimento nel processo Montante, dov’è accusato di rivelazione di notizie riservate. L’ex presidente del Senato, con la richiesta di rito immediato, ha sempre sminuito la questione, dicendosi certo dell’assoluzione. Qualcuno ha messo in campo l’ipotesi che, in caso di condanna, sarebbe decaduto da presidente della Regione, lasciando la Sicilia senza guida. Il tentativo di infondere paura negli elettori, però, non è bastato. Il fatto di definirlo “figlioccio” di Cuffaro, Lombardo e Dell’Utri s’è rivelato un buco nell’acqua. Così come ritirare fuori la sua archiviazione dall’accusa di concorso esterno in una vecchia inchiesta di mafia. Schifani ha preso il 42 per cento. Ha stravinto.