La terra bruciata di Schifani

Da sinistra, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani e l'assessore regionale all'Economia, Marco Falcone (foto FB)

Se Tamajo dovesse accorgersi dell’inganno romano e staccarsi dal nucleo dei fedelissimi del governatore, Schifani avrebbe messo insieme un record (poco invidiabile) in poco più di un anno: aver fatto tabula rasa della classe dirigente di Forza Italia. Almeno di quella che conta, o che contava. Al netto dei pagnottisti vari, o dei deputati che – all’indomani della sciagurata spaccatura all’Ars fra Forza Italia 1 e 2 – hanno dovuto scegliere da che parte stare (quella del vincitore). Tamajo sarebbe l’ennesima vittima dei rancori e delle vendette del presidente della Regione, che per strada ha seminato i vari Micciché, Falcone, Occhiuto, Tajani. Per non parlare degli “extra”, cioè gli esponenti degli altri partiti, che non hanno mai avuto la fortuna di frequentare il “cerchio magico” o, dopo averlo fatto, ne sono usciti a gambe levate.

Tamajo, che rappresenta tuttora un assessore di punta (grazie alla delega alle Attività produttive) e che è stato campione di preferenze alle ultime Regionali, è rimasto escluso da qualsiasi incarico all’interno di Forza Italia. Per un mero vezzo di Schifani, che ha preferito affidarsi al suo ventriloquo, Marcello Caruso, tagliando fuori il ras di Mondello da un ingresso nella segreteria nazionale (magari attraverso il “listino” di Tajani). Avrebbe significato perdere due volte, così Schifani, che è poco avvezzo alla sconfitta e ancor meno a concedere l’onore delle armi, ha preferito blindarsi. Con Caruso, che è stato lui a ricollocare sulla geografia politica nonostante il recente passato da renziano; e con se stesso, grazie al nobile scranno di presidente del Consiglio nazionale azzurro. Nobile quanto inutile.

Tamajo, che ha i voti, il potere e i soldi (dell’assessorato), invece è rimasto a guardare. Non gli è bastata l’amicizia di Totò Cardinale, né è riuscito a far comprendere il valore del suo trasferimento da Italia Viva a Forza Italia, avvenuto nel 2021 durante il regno di Micciché. Un passaggio in grado di cambiare il destino del partito a Palermo (altro che Caruso), e che forse avrebbe meritato miglior ricompensa. Invece non accadrà. Perché la scalata di Tamajo, nel medio e lungo termine, avrebbe ripercussioni solo sul prestigio di Schifani; che non ama gli ambiziosi, specialmente gli allievi che, un giorno, finirebbero per fargli le scarpe.

Era già successo con Falcone, prima vittima del nuovo corso di Forza Italia. Da sempre minoranza responsabile del partito, l’assessore all’Economia – al quale persino le opposizioni riconoscono abilità e giudizio – è stato spogliato della delega alla Programmazione, quella che sarebbe tornata utile in questi giorni per mettere nero su bianco il faticoso Accordo di Coesione da proporre al ministro Fitto, relativo all’utilizzo dei Fondi di sviluppo e coesione. Falcone, declassato a semplice “ragioniere” (cit. Scateno), non ha più mosso un dito sulle risorse extraregionali: è stato messo all’angolo da Armao, nominato consulente al ramo. L’altro “cuscinetto” di Schifani, assieme a Caruso; uno di quelli che non si sognerebbe mai alcuno sgarbo e nemmeno una critica nei confronti del governatore errante. Che infatti l’ha messo anche a capo della Cts per il rilascio dei pareri ambientali.

L’altro esponente di peso, fatto fuori a suon di umiliazioni, è stato Gianfranco Micciché. Dopo venti e passa anni di onorata carriera da coordinatore regionale di Forza Italia, è stato defenestrato all’indomani delle elezioni vinte e per cause mai chiarite del tutto: sembra che alla base del divorzio ci sia la scelta dell’assessore alla Salute, poco gradito all’ex presidente dell’Ars. Ma quello che è successo dopo, con lo “scippo” dei singoli deputati all’Assemblea regionale (perché non convertirsi avrebbe significato sparire) e la frattura di FI, con la mancata deroga al gruppo “minoritario” da parte di Galvagno, è stato l’emblema di una prova muscolare già studiata a tavolino. Schifani s’è preso i voti di Micciché e gli ha restituito con gli interessi i dubbi (coltivati da Micciché medesimo) riguardo al suo nome. Un nome, peraltro, utilizzato da Fratelli d’Italia come un “cavallo di Troia” per vendicarsi della mancata ricandidatura di Musumeci. Insomma, Schifani s’è trovato lì che non lo voleva nessuno, eppure è diventato presidente. Credendosi il più furbo di tutti.

Ma di tutti in tutti i sensi. Persino di Antonio Tajani, che per mesi – anche con Berlusconi in vita – ha dovuto sorbirsi le critiche per il mancato coinvolgimento, di Renato e dei siciliani, nei quadri dirigenti del partito. “Pensi a lavorare” è stata la risposta del vicepremier. Che non s’è fatto scrupoli, e anche a questo giro l’ha lasciato fuori. Schifani – per una forma di ribellione? – ha votato come suo vice-segretario Stefano Benigni di Alzano Lombardo, 37enne amico di Marta Fascina. Una forma di ‘vendetta’ anche nei confronti del governatore della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, che poteva essere certamente più funzionale nel sostegno alle battaglie del Sud (compresa quella legata alla rappresentatività). Invece, anche su questo nome, è scattato lo schiribizzo. Forse un po’ di gelosia. A tal punto che Schifani, una volta escluso, ha iniziato una crociata: “Un governatore di una regione, qualunque essa sia, chiamato dai cittadini direttamente ad occuparsi del territorio, può mai avere il tempo di occuparsi di un ruolo di partito che in questo momento ha bisogno di gente nuova. Sarebbe ridicolo”. E inoltre: “Il mio percorso? Forse oggi un po’ marginalizzato dopo la morte di Berlusconi ma noi andiamo avanti serenamente”. Non gli è mai andata giù.

Fuori dal recinto di Forza Italia, sono tanti i nemici finiti nella black list negli ultimi mesi. A partire dal suo predecessore, Nello Musumeci, col quale il conflitto si è allargato dopo il mancato riconoscimento dello stato di calamità (oggi accordato) a seguito degli incendi dell’estate scorsa e si è protratto, di recente, sulla programmazione dei fondi europei 2021-27: Schifani vorrebbe rivoluzionare la lista della spesa, tralasciando il grosso delle opere già “opzionate” dall’attuale Ministro. Non corre buon sangue nemmeno con la “frangia turistica” di Fratelli d’Italia, che gli ha fatto calare dall’alto assessori (come Scarpinato), scandali (come Cannes) e progetti costosissimi: l’ultimo, il Giro di Sicilia, è stato cancellato a seguito delle “scelte politiche” di questo governo, come dichiarato dal gruppo Rcs di Urbano Cairo. Come l’avrà presa Manlio Messina?

L’altro nervo scoperto riguarda i rapporti con Raffaele Lombardo, che si sono deteriorati sul fronte della sanità (durante il lungo iter per la scelta dei manager) e dei termovalorizzatori, un progetto che Schifani ha avocato a sé (facendosi nominare commissario), togliendo qualsiasi diritto di replica all’assessore autonomista Di Mauro. Anche con Cuffaro, prima illuso e poi tradito sulla via di Strasburgo, non sono tutte rose e fiori: l’ex governatore ha preso atto che un pezzo di Forza Italia non lo vuole e Schifani, che credeva di essere il reuccio (almeno in Sicilia), non è stato in grado di convincerli. Insomma, al presidente della Regione restano pochissimi amici. Così pochi da poterli contare sulle dita di una mano: Caruso, Armao, La Russa, Dell’Utri (ha votato Benigni assieme ai suoi compari agrigentini). Gli basteranno per sopravvivere fino all’ultimo giorno di questa legislatura e, magari, anche oltre?

Alberto Paternò :

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