A Palermo il sindaco c’è, ma non si vede. Ogni tanto compare a una cerimonia, si arrampica su un carro, rilascia una dichiarazione. Poi sparisce. Intanto la città affonda: le strade sono sporche, i rifiuti si accumulano, i trasporti non funzionano, la sicurezza è diventata un’emergenza. E i palermitani cominciano a perdere la pazienza. Lo hanno dimostrato anche durante il Festino di Santa Rosalia, quando Roberto Lagalla è stato accolto da una bordata di fischi. Lui la prende con filosofia (“Mi spingono verso un rinnovato confronto con la città, con l’obiettivo di dare nuove, serie e trasparenti risposte ai suoi cittadini, come quelle già date nei primi tre anni di sindacatura, frutto di un instancabile e quotidiano impegno”), ma il segnale è chiaro: la luna di miele è finita.

A certificare il crollo di consenso è arrivato pure il sondaggio del Sole 24 Ore, che lo piazza all’ultimo posto tra tutti i sindaci dei capoluoghi italiani, con un calo dell’8,4% in un solo anno (ora è al 39 per cento). Una bocciatura sonora. Ma Lagalla, da parte sua, ha fatto spallucce: “Sono classifiche che lasciano il tempo che trovano – ha detto – Palermo, come diceva il cardinale Pappalardo, è una città bella e tormentata. Bisogna accettarne i tormenti e continuare a lavorare”.

Eppure, questa discesa era tutt’altro che scontata. Lagalla era partito con ben altre ambizioni. L’ex rettore dell’Università di Palermo, nel 2017, era stato chiamato a fare l’assessore regionale all’Istruzione nella giunta Musumeci. Un ruolo che ha ricoperto per cinque anni, diventando una figura di riferimento nel centrodestra. Quando nel 2022 ha deciso di candidarsi a sindaco, lo ha fatto da “civico”, ma con il sostegno compatto della coalizione. Da Forza Italia a Fratelli d’Italia, passando per gli irriducibili di Lombardo e Cuffaro. Gli correvano dietro persino i renziani, che a un tratto della consiliatura, complici le uscite affilate di Davide Faraone nei confronti di Schifani, hanno dovuto rinnegare le origini (pena la crisi politica). Ma quella di Lagalla nasceva, comunque, come una candidatura rassicurante, moderata, utile a tenere insieme mondi diversi. E a tenere fuori la sinistra, reduce da un decennio orlandiano logorato e impopolare.

Il consenso iniziale, però, si è trasformato presto in delusione. Le promesse si sono sgonfiate. Palermo è rimasta quella di prima, se non peggio. Il centro storico è diventato un suk disordinato, dove regnano l’abusivismo e l’odore di fritto. Le periferie – Zen, Borgo Nuovo, Brancaccio – versano in uno stato di abbandono cronico. I servizi non funzionano, il personale comunale è demotivato, i cantieri infiniti. E negli ultimi mesi si è aggiunto un altro allarme: la sicurezza. Tra scippi, rapine e aggressioni, il clima si è fatto teso. Lagalla ha provato a reagire: ha scritto al prefetto Mariani, oggi volerà a Roma (per conto dell’Anci) per incontrare il ministro Piantedosi, chiedendo più uomini e più controlli. Ma la mossa è sembrata più un atto difensivo che una strategia. Come a dire: “Io non posso fare nulla”.

Nel frattempo, anche gli equilibri politici si sono incrinati. Lagalla ha fluttuato tra i partiti: dapprima si è avvicinato a Forza Italia, suscitando il fastidio di Renato Schifani, che non ha mai gradito certe incursioni nel suo spazio politico. La tensione è aumentata quando, insieme a Raffaele Lombardo e Gianfranco Miccichè, ha dato vita al progetto centrista di Grande Sicilia. Sembrava potesse diventare un pungolo per Schifani, se non addirittura un fastidio. In realtà ha creato solo imbarazzi: dall’arresto del deputato regionale Castiglione all’accusa di corruzione per Roberto Di Mauro (che nel frattempo si è dimesso da assessore all’Energia) per le tangenti legate alla rete idrica di Agrigento.

Ma è proprio a Palermo che la coalizione comincia a dare segni evidenti di cedimento. Da fine aprile, il Consiglio Comunale si è spesso impantanato, anche su atti di ordinaria amministrazione come i debiti fuori bilancio. Troppe assenze tra i banchi della maggioranza, troppa disattenzione. “In questo ultimo periodo c’è stato qualche problema, certamente anche all’interno della maggioranza”, ha ammesso il presidente dell’Aula Giulio Tantillo. Sul tavolo, ora, ci sono partite pesanti: i nuovi contratti di servizio per Amat e Rap, il bilancio consuntivo, il Dup, il piano triennale delle opere pubbliche. Tutto bloccato. Sala Martorana rischia la paralisi.

Nel frattempo, Lagalla ha cercato di ricucire con Schifani. Dopo mesi di gelo ha ceduto sull’aeroporto: la Gesap è tornata sotto l’influenza del governatore, che non possiede nemmeno una quota della società ma riesce comunque a dettare nomi e linee. Il nuovo Amministratore delegato, Gianfranco Battisti, è una nomina voluta dalla Città Metropolitana, ma pensata per compiacere Palazzo d’Orléans. Lo strappo con l’ex Ad Vito Riggio – epurato dopo una critica al governo – era stato il primo indizio. Il prossimo potrebbe essere imminente: la nomina di Carmelo Scelta come direttore generale. Un altro nome caro a Schifani. In cambio, Lagalla ha ottenuto la riconferma di Marco Betta alla guida del Teatro Massimo, suo vero punto fermo.

Ma dietro queste concessioni si nasconde un obiettivo preciso: guadagnarsi il sostegno del governatore in vista delle Amministrative. Lagalla vorrebbe ricandidarsi, nonostante tutto. Ma sa bene che senza l’appoggio di Forza Italia, e senza il via libera di Schifani, la corsa potrebbe non partire nemmeno. Ecco perché oggi si mostra accomodante, silenzioso, disponibile. Anche a costo di rinunciare a quella debole autonomia che, per un attimo, aveva provato a ritagliarsi.

Gli restano quasi due anni di mandato. Ma l’impressione è che la sindacatura sia già finita. Lo dicono i numeri, lo dice la piazza, lo dicono i fischi. Lo dicono anche gli alleati, che iniziano a guardarsi intorno (e non perdono occasione di beccarlo: come hanno fatto i patrioti dopo che il Comune ha concesso il patrocinio al Pride, o i presidenti delle circoscrizioni, che denunciano la mancanza di ascolto). Quello che doveva essere un laboratorio politico si è trasformato in un’esperienza sbiadita. E il sindaco-rettore che voleva rilanciare Palermo oggi appare come il gestore rassegnato di una città difficile, che non è mai riuscito a governare davvero.