L’operazione messa in campo ieri dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina, e dai carabinieri del Ros, ha portato all’arresto di 94 persone e al sequestro di 150 aziende gestite da personaggi poco raccomandabili. Il più grande colpo di sempre inflitto alla mafia dei pascoli. Ma, soprattutto, restituisce il ricordo dell’attentato subito da Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi, in una notte di metà maggio di quattro anni fa. Quando dei sicari lo attesero al varco, tra San Fratello e Cesarò, ed esplosero alcuni colpi di fucile sulla blindata che, oltre ad Antoci, ospitava gli uomini della sua scorta. Fu il vice-questore aggiunto Manganaro, a bordo della seconda auto, a mettere in fuga i criminali. Il ricordo è ancora vivido perché nell’ottobre scorso, non senza polemiche, la commissione regionale antimafia diretta da Claudio Fava ha provato a ricostruire la vicenda. Senza giungere a una conclusione certa, ma ipotizzando una messinscena (sebbene all’insaputa della vittima). E persino il processo incardinato a Messina, con quattordici indagati, è stato archiviato per mancanza di evidenze.

Antoci, però, era la vittima designata. Perché era stato lui, da direttore del Parco, a prendere in carico le denunce di numerosi agricoltori, che si vedevano “scippare” le terre (altro che affitti) da mafiosi senza scrupoli, che in quegli appezzamenti non realizzavano colture ma enormi guadagni grazie ai contributi dell’Unione Europea (i fondi della Pac, la politica agricola comune). E riuscivano ad aggirare le interdittive antimafia grazie a un meccanismo rodato – con il coinvolgimento di funzionari e professionisti del malaffare – e una legge a maglie larghe. Antoci, per cominciare, introdusse nell’Isola un “protocollo di legalità”, che imponeva il rilascio di un certificato antimafia da parte della Prefettura per tutti coloro che volessero affittare un terreno e partecipare ai bandi (anche inferiori alla soglia di 150 mila euro). Un protocollo che nel 2017 diventò legge dello Stato, ma che già prima, durante la sua gestazione, aveva fatto di Antoci un soggetto a rischio e “meritevole” di scorta.

Dottore Antoci. L’operazione della Dda di Messina le restituisce un pezzo della sua vita?

“In realtà temo che odio e rancore nei miei confronti potrebbero aumentare. Anzi, ne sono certo. Ma cosa posso farci?”.

Perché dice così?

“Quando ci sono tanti arresti che sono frutto – anche – del tuo lavoro, ma soprattutto 150 aziende sequestrate, che vuole che pensino di Antoci? L’unica cosa che possono pensare è che quella notte gli è andata male e non me l’abbiano fatta pagare. Ma adesso lo Stato ha vinto: se ne facciano una ragione”.

E’ la più grande operazione di sempre contro la mafia dei pascoli.

“E’ un’operazione che non ha precedenti, almeno per quanto riguarda la parte legata ai fondi europei per l’agricoltura. Nella conferenza stampa del procuratore nazionale De Raho, è stato messo in evidenza come prima che noi facessimo il protocollo, poi diventato legge dello Stato, la mafia incassava milioni e milioni indisturbata. E lo faceva da anni. Sono molto contento per il risultato raggiunto ieri: ringrazio il procuratore De Lucia della direzione distrettuale antimafia di Messina, i carabinieri del Ros del comando provinciale, la Guardia di Finanza, ma anche chi mi ha consentito di andare avanti, di proseguire il lavoro e di far diventare il protocollo legge. Cioè gli uomini della mia scorta, che quella notte mi hanno salvato la vita. Se fossi rimasto ucciso, non sarebbe accaduto niente del genere”.

Perché oggi lo Stato ha vinto?

“Ha vinto perché afferma un concetto fondamentale: che fare il proprio dovere, in questa terra, deve essere normale. Non abbiamo bisogno di eroi. Penso che la Sicilia meriti una lotta alla mafia fatta di piccoli passi e piccole persone, che come me e tanti altri fanno ogni giorno il proprio dovere”.

Per anni, e ben prima del protocollo Antoci, in tanti però hanno chiuso gli occhi o fatto finta di non vedere. La mafia dei pascoli non è un fenomeno nuovo.

“Questo è il tema dei temi. Se ognuno, prima di me, avesse fatto ogni giorno il proprio dovere; se qualcuno si fosse opposto alle autocertificazioni presentate da gente che era stata in galera per mafia; se altri avessero agito come è accaduto di recente in Sicilia o in Calabria, qualche giorno fa, con la famiglia Mancuso dei Limbadi (l’inchiesta di Gratteri, ndr) … Ecco, se tutti avessero fatto qualcosa in più, non saremmo giunti a questo punto. Ma lei crede che nessuno conoscesse i nomi e i volti di questi mafiosi? Per anni hanno regnato paura e connivenza. Operazioni come quella di ieri dimostrano che le paure vanno gestite, e devono trasformarsi in speranza e coraggio; mentre le connivenze, come giusto che sia, finiscono dritte in galera”.

Che interessi ruotano dietro una truffa di così ampia portata?

“Questa è un’operazione che svela attività incredibili, che non sono legate soltanto alla Sicilia, ma probabilmente anche ad altre regioni d’Italia. E’ un pozzo senza fondo, e può stare certo che verrà fuori dell’altro anche in futuro. I terreni utilizzati dai mafiosi portavano a un rendimento del duemila per cento – che neanche il mercato della droga – e questa situazione è andata avanti per anni. Ecco perché, come ha sottolineato il procuratore De Raho, dopo che il protocollo comincia a dare i suoi effetti e si pensa di estenderlo a tutta Italia, la mafia mette nel mirino Antoci. Questi avevano una fonte di sostentamento così importante, così elevata e così tranquilla, che, a un certo punto, l’unica soluzione è fermare colui che si è messo in mezzo”.

Come si conduce oggi la lotta alla mafia?

“La lotta alla mafia si fa con le norme, con le leggi, facendo il proprio dovere, esercitando una cosa che è la più bella di tutte: il diritto di cittadinanza. Il più importante testo antimafia di questo Paese è la costituzione. Basta essere bravi cittadini per bloccare la mafia, non servono attori”.

Anche il gip di Messina, Salvatore Mastroeni, che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare, ha fatto un richiamo alle coscienze. Dicendo che per battere la mafia non bastano i procedimenti giudiziari. Detto da un giudice fa un po’ effetto…

“E su questo dobbiamo lavorare. Io incontro migliaia di studenti in tutta Italia, sul protocollo Antoci sono state fatte decine di tesi. Io sono un’ottimista di natura e incontrando questi ragazzi mi rendo conto che ce la possiamo fare. Loro ci sono, è la nostra generazione che deve dimostrare di poter fare squadra, di essere credibile, vera, di volergli lasciare un futuro dignitoso. L’indagine e gli arresti di ieri hanno dimostrato che questa terra aveva perso la dignità, umiliando gli agricoltori e gli allevatori seri e perbene, quelli che si spaccano la schiena. Non dando loro ciò di cui necessitavano per andare avanti e sostenere la propria attività. I fondi europei, piuttosto, venivano erogati ai mafiosi. Noi, col protocollo, abbiamo voluto rimettere a posto le cose, tutto qua”.

Cosa le è rimasto addosso delle conclusioni della commissione regionale antimafia. Qualche mese fa si disse che l’attacco subito la notte fra il 17 e 18 maggio 2016, potrebbe essere stata anche una messinscena.

“Penso che su questa vicenda, nelle scorse settimane, abbiano risposto alcuni magistrati, fra cui il procuratore di Patti. Ma penso che la risposta più chiara sia arrivata dall’ultima attività giudiziaria”.