Schifani non si dimette, non azzera la giunta e non promette neppure un rimpastino. Ma la pletora dei fedelissimi va dimezzandosi ogni ora che passa e il suo governo grida pietà. L’unico, vero rifugio del presidente, pugnalato in aula dal “voto segreto”, è l’uomo che non lo tradirebbe mai, ma che lui – involontariamente – ha finito per tradire. Ora che le province non si faranno più, bisognerà trovare uno strapuntino per Marcello Caruso, che già riveste l’incarico di capo di gabinetto, oltre che di commissario regionale di Forza Italia. Il politico multitasking, e con pochissimo tempo libero, doveva diventare anche presidente della provincia di Palermo, forse un po’ troppo per le sue abilità di mediatore (è finito sul banco degli imputati dopo la disfatta sulla “salva-ineleggibili”).

Caruso, assieme ad Armao e pochi altri (tra i quali Stefano Pellegrino, presidente del gruppo parlamentare di FI all’Ars), stanno tentando di proteggerlo in tutti i modi. Ma la verità è che Schifani, in quattordici mesi di governo, ha visto lentamente sgretolare il suo impero dall’interno. A cominciare dal suo stesso partito. Marco Falcone, privato della delega alla Programmazione e assai influente nell’area catanese, rappresenta da mesi un potenziale pericolo per il futuro. Inoltre, un paio di deputati agrigentini, Gallo e La Rocca Ruvolo, che già s’erano messi di traverso sulla spartizione dei manager a tavolino, avrebbero ostacolato l’approvazione del Ddl province perché non accettano che sia Cuffaro ad esprimere il candidato in casa loro.

A Roma, inoltre, Schifani ha fallito l’assalto al fortino di Tajani, nonostante abbia “venduto” Cuffaro sulla strada per le Europee: un sacrificio che avrebbe dovuto valergli la riconoscenza del nuovo capo, di Caterina Chinnici e di quelli che “il partito non è autobus”. Fino a qualche ora prima della debacle all’Ars, però, il governatore appariva irritato e impaziente: “La Sicilia è tagliata fuori, ma non ne facciamo una questione – ha detto -. Io sto crescendo una classe dirigente di 12 deputati, bravissimi, e spesso in silenzio, senza strafare, lamentano di non essere in sintonia con quello che si decide a Roma. Mi auguro che il tempo possa dar luogo a correzioni di rotta”. Dal segretario nazionale nessun invito è pervenuto a diventare suo vice, o ad indicare qualcuno al suo posto (uno a caso? Caruso…).

Anche coi Fratelli d’Italia la situazione è sempre stata borderline, talvolta burrascosa. Dopo l’incidente di percorso sulla “salva-ineleggibili”, nonostante il perdono concesso dai deputati meloniani all’Ars (“Ci ha messo la faccia”), non è certo migliorato il rapporto con Manlio Messina, plenipotenziario della Meloni, che aveva già provato a fargli le scarpe sul turismo, costringendolo a una clamorosa (quanto imbarazzante) retromarcia a Brucoli. Se davvero i patrioti stanno dietro la bocciatura delle province – ora sono tornati a chiedere elezioni di secondo livello, accantonando per sempre l’idea di una riforma strutturale – vuole dire che Schifani e FdI non hanno le stesse priorità e che i dissapori del passato (per la nomina dall’alto di alcuni assessori non eletti) non sono archiviati.

Sul versante Lega, al netto degli ottimi rapporti con Sammartino, restano le divergenze profonde con Raffaele Lombardo, ufficialmente “federato” al Carroccio (un partito, di per sé, alla disperata ricerca di una guida). L’ex governatore non ha gradito le interferenze sull’assessore all’Energia (di fatto commissariato sui termovalorizzatori) né l’eccessiva accondiscendenza ai desiderata di Cuffaro. In questo scenario così caotico, e con i franchi tiratori pronti a trasformare ogni votazione in un Vietnam, come farà Schifani a rinsaldare i fili della maggioranza? A irrobustire il rapporto fra partner che si detestano? A riavviare un’azione di governo che nell’ultimo mese e mezzo, dopo la Finanziaria, è rimasta paralizzata dalla ricerca (infruttuosa) del miglior equilibrio? E’ successo sulla sanità e sulle leggine farlocche e incostituzionali, ormai evaporate.

Quale altro passatempo, dopo aver fallito sul caro voli (“Sono possibili nuove speculazioni a Pasqua” ha ammesso), potrà inventarsi Schifani per ricucire il rapporto con gli alleati e guadagnarsi un bonus di fiducia? Quali altri affarucci, dopo aver chiuso la bottega delle mance di Natale, potrà mettere sul piatto per accaparrarsi la stima passeggera del parlamento e dei partiti? Ora come ora, ha le mani vuote. Non ha un orizzonte, né un programma di governo. Non gli basterà fare il diavolo a quattro e chiedere la testa della direttrice dell’ospedale ‘Di Cristina’ dopo la denuncia di alcuni disservizi di una madre su un giornale. Quello è populismo. E a cavalcare i trattori ci ha già pensato il rivale Cateno De Luca. Gli resterebbe, in realtà, la sanatoria per salvare le case abusive sorte a meno di 150 metri dalla battigia, una legge che i 5 Stelle definiscono “vergognosa, ingiusta e incostituzionale”, e destinata a “fare la stessa fine delle altre appena bocciate. Noi ce la metteremo tutta per affossarla, e se dovesse andarci male segnaleremo l’evidentissima incostituzionalità a Roma che non potrà chiudere entrambi gli occhi davanti all’evidenza”.

Dopo che il parlamento ha impallinato le province, cioè il fiore all’occhiello della sua propaganda, Schifani non ha neppure una promessa da rispettare. Nel colloquio di ieri con Galvagno ha spiegato che certe cose non dovranno più accadere, o “verranno assunte decisioni politicamente importanti”. Ma l’agenda dell’Ars, per il momento, è tristemente vuota. Non si intravedono votazioni. Prima del “rompete le righe” per la campagna elettorale, bisognerà trovare un riempitivo. Una cosa per cui valga la pena trattare. E mandare Caruso in avanscoperta. Altrimenti sai che noia.