L’unica cosa che aumenta qui sono i morti e i contagi. Il picco non c’è ancora e la curva non si arresta, nonostante i timidi spiragli che giungono dalla Lombardia (vera cartina da tornasole della pandemia). Tutto il resto può aspettare. Il riferimento, in particolare, riguarda i dispositivi di protezione individuale. Dove sono finite le mascherine? I medici sono in ginocchio, le reclamano a gran voce. Buona parte di loro si ammala (oltre 6 mila gli operatori sanitari risultati “positivi”), qualcuno ci ha già rimesso la vita: il borsino dei morti ha raggiunto quota 46. Gli ultimi cinque ieri, due dei quali nella “solita” Bergamo (ma anche a Lecco, Genova e Pesaro-Urbino). A Palermo sono tre i medici dell’ospedale “Cervello” già contagiati, tre anche al “Gravina” di Caltagirone, altrettanti a Enna. Non lavorano in condizioni di sicurezza, e il problema è sin troppo noto. Meno note appaiono le soluzioni.

L’ultimo report elaborato dalla Protezione Civile, risalente al 24 marzo e sconfessato dal commissario unico per l’emergenza, Domenico Arcuri, fornisce alcuni numeri che non tornano: c’è un gap evidente fra il numero di mascherine “inviate” e quelle “arrivate” a destinazione. Giusto per non fossilizzarsi sulla Sicilia: nel Lazio, stando alle statistiche ufficiali, sarebbero state consegnate circa 300 mila mascherine, ma il governatore Zingaretti ne conta appena 55 mila. Nelle Marche, una delle regioni più colpita dal Covid-19, se ne attendevano un milione, ma fin qui non ne è arrivata nessuna. Anche in Campania il divario è tragico e ha fatto imbestialire il presidente De Luca, quello che ha promesso i carabinieri coi lanciafiamme alla prima festa di laurea organizzata.

Ma com’è che funziona il sistema? Più o meno così: le regioni ordinano il materiale, lo Stato elabora la richiesta e la Protezione Civile provvede alla consegna dei dispositivi. Dovrebbe. “Effettivamente c’è una discrepanza che non mi aspettavo – ha detto Arcuri un paio di giorni fa – e che ancora oggi non mi spiego, tra il numero di mascherine che inviamo e quelle che arrivano, non so se è un problema di corriere o di aziende ma da qualche parte il meccanismo si inceppa”. Chiaro?

Non solo non arrivano abbastanza mascherine per soddisfare le richieste delle varie regioni. Ma – peggio – nemmeno quelle effettivamente in dotazione vedono lo striscione del traguardo. Probabilmente si sono inceppate le consegne. O qualche granellino ha travolto l’ingranaggio “durante”. In Emilia Romagna e in Toscana, ad esempio, le mascherine a giunte a destinazione sono il doppio di quelle previste. Una possibile motivazione l’ha fornita a “Repubblica” il dottor Danny Sivo, responsabile pugliese del Sistema di sicurezza del lavoro negli ospedali: “Le aliquote di materiale da distribuire sono calcolate con un algoritmo pensato male: valuta il numero dei contagiati, e non quello degli operatori sanitari. Una mascherina protegge un medico sia che questi curi una persona sia che ne curi dieci”.

A ingarbugliare la questione, è, inoltre, la diversificazione dei presìdi di protezione. Ci sono mascherine e mascherine. Quelle che vengono utilizzate dai medici, anche qui sarebbe d’obbligo il condizionale, sono le Ffp3 e Ffp2, dotate di filtro, capaci di garantire una barriera rispetto alla trasmissione del virus. Poi ci sono le “meno peggio”, quelle chirurgiche (in dotazione alle forze dell’ordine o ai volontari, per esempio), di cui gli operatori della sanità non vogliono sentir parlare. “Pretendiamo di ricevere dispositivi all’altezza di un Paese industrializzato – ha detto Filippo Anelli, presidente della Federazione degli Ordini dei medici italiani -.  Noi medici siamo in grado di definire il livello di sicurezza e di utilizzare le mascherine in libertà, con buonsenso, a seconda delle situazioni. Quelle chirurgiche non le vogliamo”. E poi ce n’è una terza fattispecie, le “Montrasio”, uno dei “panni da pulire” che Musumeci, per venire alle questioni sicule, qualche giorno fa ha scagliato via durante un collegamento televisivo. In modo veemente e in segno di protesta. Non servono a nulla, se non a fare la spesa o la fila in farmacia.

Ecco, l’ultima commessa della Protezione Civile ha “regalato” alla Regione siciliana 410 mila di queste mascherine-fuffa, a fronte di nessuna richiesta. Delle altre, più congeniali al lavoro di medici e infermieri, neanche l’ombra: delle oltre 5 milioni di mascherine Ffp2 e Ffp3 ne sono arrivate una manciata (41.560). Di quelle chirurgiche – la richiesta era superiore a tredici milioni – ne sono state consegnate appena 174 mila. E’ come combattere il virus, di per sé invisibile, a mani nude. O, per usare una metafora molta cara al presidente della Regione, andare in guerra con le fionde. Con le frontiere chiuse, e numerose commesse andate in  fumo (l’assessore Razza, di recente, ha citato il caso di un carico stoppato in Turchia), non è neanche facile procurarsele da sé. Molti distretti dell’Isola stanno convertendo la produzione per dare una mano e ieri l’assessore regionale Mimmo Turano ha annunciato che, dopo il via libera del governo ai prototipi consegnati dal Distretto Produttivo Meccatronica, “a giorni arriveranno le prime 100.000 mila mascherine, i primi 1.000 schermi protettivi 3D per i chirurghi e più di 25 mila chili di gel igienizzante per gli ospedali siciliani. Questa è solo una prima tranche – ha aggiunto Turano -, ogni settimana ci sarà una fornitura e i siciliani avranno sistemi di protezione che metteranno la loro vita al sicuro”.

La Protezione civile regionale è stata autorizzata a fare partire gli ordinativi e anche Roma, dato l’imbarazzo generale, ha promesso di non mettere più i bastoni fra le ruote. Fino a qualche giorno fa, infatti, vigeva la “competenza” esclusiva della Protezione Civile nazionale nello smistare mascherine. Chi provava a fare da sé rischiava di essere requisito. Evidentemente, a monte di questa emergenza nell’emergenza, c’è un vulnus che solo adesso – quando è ormai troppo tardi – si tenta di colmare: riguarda un documento del ministero della Salute, il Piano Pandemico nazionale, raccomandato dall’Oms e aggiornato nel dicembre 2016, il cui obiettivo è “rafforzare la preparazione alla pandemia a livello nazionale e locale”. Come spiega “Repubblica”, il piano – nato dall’esperienza della Sars – divide il rischio pandemia in sei fasi. E già nella prima, quando il rischio di infezione nell’uomo è considerato basso, si prevede, “previo censimento dell’esistente, di costituire una riserva nazionale di Dpi, e altri supporti tecnici per un rapido impiego nella prima fase emergenziale”, e di “iniziare la negoziazione per un approvvigionamento sicuro”. Qualcuno se n’è dimenticato.