Potrebbe essere una boccata d’ossigeno, oppure l’ennesimo cappio al collo di una Regione che non ne vuol sapere di cambiare. Ma l’accordo approvato giovedì, ratificato dal Consiglio dei Ministri, è davvero l’ultimo treno su cui Musumeci e Armao possono salire per evitare alla Sicilia il default. In altre parole: il fallimento. Non chiudere il negoziato con Roma avrebbe significato un taglio di 800 milioni ai servizi. E una Legge Finanziaria, la prossima, ridotta all’osso. L’ipotesi è stata scongiurata, nonostante la crisi di governo che ha investito nelle ultime ore Palazzo Chigi. Il primo effetto tangibile sarà la possibilità di tornare in aula, a palazzo dei Normanni, per l’approvazione dell’esercizio provvisorio. Una manovrina da 350 milioni che riaprirà i cordoni della spesa (in dodicesimi, cioè seguendo lo schema dell’ultimo Bilancio approvato, lo scorso anno, al netto di eventuali variazioni).

Le prime due settimane dell’anno, per la Regione, sono state di “gestione provvisoria”. Nessuna spesa, eccetto quelle obbligatorie per legge. Fino all’accordo con Roma. “Le nuove norme – si legge nel comunicato di Palazzo Chigi – stabiliscono che le quote di disavanzo non recuperate relative al rendiconto 2018 della Regione potranno essere ripianate in dieci esercizi e che, per far fronte agli effetti negativi derivanti dall’epidemia da Covid-19, le quote di copertura del disavanzo da ripianare nell’esercizio 2021 sono rinviate, per tale sola annualità, all’anno successivo a quello di conclusione del ripiano originariamente previsto”. Non solo la Regione avrà la possibilità di rateizzare gli accantonamenti su un periodo più lungo (10 anni anziché 3), ma il rinvio della prima rata le consentirà di pompare nelle vene, sin da subito, 420 milioni di liquidità.

Il principio è lo stesso di quello passato a dicembre 2019 (quando andò in scena il primo tentativo), con la promessa – disattesa – ricambiare, entro 90 giorni, con un pacchetto di riforme che consentisse di razionalizzare gli sprechi e contenere la spesa. Tutto ha un prezzo, d’altronde. L’assessore Armao, che aveva parlato di “cure di cavallo” inaccettabili, oggi dovrà necessariamente ricredersi. Perché, come si legge nell’accordo che porta in calce le firme (digitali) di Conte e Musumeci, “in caso di mancata attuazione degli impegni” o “a seguito della mancata trasmissione della certificazione”, “viene meno il regime di ripiano pluriennale del disavanzo di cui al comma 1 dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 158 del 2019 e trova applicazione il regime ordinario previsto dall’articolo 42 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118”. Vuol dire, in parole povere, che la spalmatura tornerebbe quella delle origini: in tre anni. Un disastro annunciato.

Per evitarlo, la Sicilia deve essere conseguente agli impegni. E, punto primo, non potrà prolungare l’esercizio provvisorio oltre la data del 28 febbraio. Questo è un ostacolo non da poco, dal momento che la giunta non ha ancora approvato il Bilancio di previsione 2021-23 e siamo ben lungi da uno schema di Finanziaria. L’attesa, in questo caso, dipende (anche) dall’udienza di parifica della Corte dei Conti, in programma il 29 gennaio, che potrebbe costringere Palazzo d’Orleans a nuovi correttivi. In ogni caso, la manovra – che Musumeci ha promesso di rendere “sobria e snella” – andrà necessariamente approvata dall’Assemblea regionale prima della scadenza indicata da Roma. Con tutti i passaggi parlamentari in mezzo, compreso quelle nelle commissioni di merito, sarà un tour de force. Ma è inevitabile che dopo un anno di “vuoto cosmico”, la Regione sia costretta ai salti mortali.

Fra i tredici impegni assunti da Nello Musumeci in sede di confronto con Roma, ce ne sono alcuni di estremo interesse. E di difficilissima applicazione. Ad esempio “la completa attuazione delle misure di razionalizzazione previste nel piano delle partecipazioni societarie” e “il completamento e la definitiva chiusura delle procedure di liquidazione coatta delle società partecipate e degli enti in via di dismissione”. In questo ambito, bisognerà rastrellare il 20% dei costi, cosa non semplice, a partire dal 2021 (in cui è previsto un risparmio complessivo di 40 milioni). La Regione ha sempre rinviato la chiusura delle procedure di liquidazione, che negli ultimi anni, fra l’altro, hanno impegnato fior fior di professionisti con compensi notevoli. Tra le sette partecipate tuttora in liquidazione c’è la Spi (Sicilia Patrimonio Immobiliare), che finì al centro di uno dei maggiori scandali (dal valore di 110 milioni di euro) sulla ricognizione del patrimonio della Regione; ma anche Inforac, Biosphera, Terme di Sciacca e Terme di Acireale. La loro sorte sarà decisa dall’Ufficio speciale per la chiusura delle liquidazioni, una ramificazione dell’assessorato all’Economia. Ma ci sono anche numerosi enti pubblici vigilati che dovrebbero fare la stessa fine: dall’Ems, l’ente minerario siciliano; all’Espi, quello per la promozione industriale; passando per l’Eas, l’ente per gli acquedotti, che da oltre un anno si trova in liquidazione coatta.

Riuscirà il governo a chiudere l’esperienza di questi costosissimi carrozzoni? “In questi tre anni non è stata prevista alcuna riduzione della spesa corrente – riflette il deputato regionale del Movimento 5 Stelle, Luigi Sunseri –, e nessun ridimensionamento delle partecipate regionali (dove, addirittura, con l’ultimo disegno di legge all’esame dell’aula, si propongono nuove assunzioni di personale). Ed ancora, delle riforme annunciate nessuna ad oggi è stata approvata. Adesso, per evitare il default certo, si sono presi con lo Stato specifici impegni di rientro. Impegni seri: riforme e tagli alla spesa; impegni in attuazione dei principi dell’equilibrio e della sana gestione finanziaria del bilancio, di responsabilità nell’esercizio del mandato elettivo e di responsabilità intergenerazionale. Impegni sui quali vigileremo ogni giorno, relazionando puntualmente il governo nazionale”, sottolinea la “spia” grillina.

Fra gli altri “sacrifici” richiesti dal negoziato spiccano “il tempestivo adeguamento alla emananda decisione della Corte costituzionale in materia di riduzione dei vitalizi dei consiglieri regionali”, cosa che non farà certo piacere al presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè, che l’ha sempre considerata una trovata populista; e “la progressiva riduzione dei trasferimenti all’Ars”. Ma anche le nuove direttive “in materia di applicazione del lavoro agile al personale regionale” e “il contenimento dell’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, nei limiti di quanto previsto per le amministrazioni pubbliche (…) nonché una più efficace utilizzazione di tali risorse finalizzata al miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi erogati alla collettività”.

Questo è un punto che costa carissimo all’Amministrazione regionale, che in questi anni, complici le sfuriate di Musumeci, non ha mai coltivato un rapporto ottimale con i dipendenti. Tanto che alcune sigle sindacali, venendo a conoscenza dei termini dell’accordo con lo Stato, hanno già sbottato: “La musica è sempre la stessa: a pagare il conto saranno i lavoratori. I tagli lineari decisi dal governo Musumeci e adottati senza alcun confronto con i sindacati – hanno scritto in una nota Giuseppe Badagliacca e Angelo Lo Curto del Siad-Csa-Cisal – comporteranno una riduzione del 20% delle risorse destinate al salario accessorio del personale regionale, pari a 10 milioni di euro: non si capisce davvero come faranno a migliorare i servizi, visto che a breve non sarà possibile nemmeno garantire quelli essenziali”. Il capogruppo del Partito Democratico all’Ars, Giuseppe Lupo, garantisce che “il diritto dei lavoratori al rinnovo contrattuale e a una giusta retribuzione è salvaguardato. Detto ciò, un efficientamento delle risorse umane, sia nelle partecipate che alla Regione, è necessario. Organizzando meglio il personale si potrebbe risparmiare anche sul salario accessorio. A tal proposito, bisogna aprire subito un confronto con le organizzazioni sindacali dei lavoratori. Non può essere un atto unilaterale da parte del governo regionale”.

La parola che salta più all’occhio, citata 19 volte all’interno del negoziato, è “riduzione”: è prevista “la riduzione di spesa per locazioni passive della Regione e degli enti e società”; quella “dei centri di costo attraverso l’applicazione delle misure in materia di aggregazioni e centralizzazione delle committenze”; ma anche la riduzione “dell’indebitamento complessivo” e “della produzione e conservazione dei documenti cartacei”, al fine di provvedere a una costante semplificazione amministrativa. E c’è infine “la riduzione dei compensi degli organi di amministrazione e controllo e della dirigenza, nonché delle spese per consulenze ed incarichi professionali” degli enti. Bisogna tagliare tutto. E poi riformare, come nel caso dei Consorzi di Bonifica e dei Forestali: “Sono due temi che poniamo con forza da tanto tempo – asserisce Lupo – Si tratta di riqualificare la spesa e renderla più produttiva. Il sistema dei lavoratori forestali e dei Consorzi di bonifica è arcaico, bisogna ammodernarlo. Anche in questo caso bisogna operare in sinergia con i sindacati, che fra l’altro lo richiedono”.

Riuscirà la Regione a farsi carico di questioni così incancrenite? La situazione sarà verificata ogni 30 aprile al tavolo con Roma (anche questo è scritto nell’accordo). “La Regione ha avuto da parte dello Stato un ripianamento di oltre un miliardo di disavanzo – è la chiosa del deputato dem – quindi sarà obbligata a rispettare gli impegni. Certamente non sarà semplice, ma credo sia possibile. Bisogna riqualificare la spesa, utilizzarla di più per investimenti produttivi e contrastare, in questo modo, anche gli effetti negativi della pandemia”. Concorda Sunseri: “Faremo in modo di non permettere che si aggiunga ulteriore disavanzo a quello accertato. Basta con le spese inutili. Facciamo partire un piano di riforme che permetta alla Sicilia di ottimizzare le risorse e rendere più efficienti i servizi”.