La casa è ancora lì, a una decina di metri sopra una delle spiagge più belle al mondo, già passata di mano due volte. Chiusa. Se ne sarebbe potuto fare un piccolo museo per turisti appassionati di mare e di musica. Niente. Vi si ricordano serate memorabili a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta quando qui si poteva ancora arrivare in barca e gli ospiti scendevano con l’acqua salmastra alle ginocchia, accolti dalla straripante generosità e dalla travolgente facondia di Mimmo e di Franca, al secolo Domenico Modugno e Franca Gandolfi, sua moglie, e dal vocio di Marcello, Marco e Massimo, allora ragazzini.

L’Isola dei Conigli è sempre troppo affollata, quell’accalcarsi, sulla spiaggia più famosa di Lampedusa, sotto tutela poiché diventata riserva naturale nel 1995, fa quasi torto, dalle 8,30 del mattino alle 19,30, sul far della sera, alla pur volenterosa vigilanza di Legambiente e del Wwf che dovrebbero forse limitare le presenze quotidiane. Chissà che ne avrebbe detto Modugno che qui elesse il suo “buen retiro”, che qui “volle” morire il 6 agosto 1994, 25 anni fa.

Quel lembo all’estremo Sud d’Europa era il suo codice isolano, il tatuaggio di questo pugliese di Sicilia che molti credevano per l’appunto siculo perché i segnali del suo amore echeggiavano già nelle prime canzoni, «U pisci spata», per citarne una delle più famose. Un altro bel marchio a forma di Trinacria glielo incise sicuramente il «Rinaldo in campo» di Garinei e Giovannini, 1961, con Franco e Ciccio scalcinati compari del fascinoso garibaldino coi baffetti, tre briganti e tre somari, rivoluzionari in camicia rossa.

Se ne offesero, i suoi compaesani di Polignano a Mare (altro azzurro spettacolare però sul tacco dello Stivale) ma che ci poteva fare lui? Anzi, è assolutamente da escludere che non gli dispiacesse nemmeno un po’. Modugno chi? Ah sì, l’artista siciliano, si diceva già allora, ancor prima del successo planetario di «Nel blu dipinto di blu», Sanremo 1958, la canzone italiana tuttora più eseguita nell’orbe terracqueo.

Perfino quando la sorte gli girò le spalle, in una notte afosa del 1984, in uno studio televisivo Fininvest (forse troppo caldo, si disse, o in cui era stato oltre il dovuto per esigenze di registrazione) la Sicilia restò nel suo cuore: da parlamentare radicale si occupò dello scandalo del manicomio di Agrigento e ingaggiò una battaglia dura – alla faccia dell’ictus – perché mutassero le condizioni di quegli incolpevoli ricoverati.

Poi, quando le crepe fisiche che aveva lasciato la malattia furono un po’ ricomposte, il ritorno sulla sua “isola” – il cui mare chiamava, con quel fare a volte altisonante che conquistava tanto quanto la sua amara grazia di chansonnier, «la piscina del Padreterno» – non era più rinviabile. E ci tornò e ci compose anche una canzone “marina” ispirandosi ai delfini, un brano non memorabile che incise col figlio Massimo in una notte che, chissà, forse gli ricordava quelle di tanti anni prima, una chitarra e molti amici.

Il “siciliano” Modugno ci tornò fino a morirvi, in una quasi sera agostana, dopo le sue quotidiane bracciate in quell’azzurro che pari quasi non ce n’è, per fondale un orizzonte che confina, quasi un presagio, con l’infinito, forse con l’eternità. 25 anni fa. Oggi, dal mare, se alzi lo sguardo poco più sopra quella spiaggia sovrabbondante di pur rispettosi turisti, la vedi ancora lì, la villa-testimonianza non più abitata se non da occasionali ospiti. Qualche adolescente chiede: «Di chi è quella casa lì?». «Di Modugno», gli risponde un genitore più distratto che legato alla presenza mitologica. «Come chi è? Quello di “volare oh oh”…». Poco, troppo poco, per un memoria così.