Separato, da un vicolo quasi invisibile, dal Palazzo di Città, Palazzo Montaperto, ovverossia Palazzo Zirafa, o Istituto Zirafa, non mostra nella facciata alcun particolare architettonico che ne ricordi i fasti e gli splendori passati. E non è stato, certamente, il tempo a cancellarli. Chissà chi e chissà perché lo ha reso anonimo (ora è cadente e disabitato) ed insignificante come una comune dimora borghese degli inizi del novecento. Come sia passato ai Zirafa dai baroni di Montaperto (munifici signori che hanno regalato alla città la torre campanaria a completamento del duomo normanno) non mi è dato saperlo, né se tra i Montaperto e gli Zirafa ci siano stati altri proprietari dell’immobile. So per certo che una volta al posto di quelle banalissime persiane c’erano finestre bifore e balconi panciuti. Per incuria o per risparmio, infatti, una finestra negletta lasciata sulla parete esterna che ad est guarda sulla piazza Lena ci regala ancora un commovente frammento dello stile chiaramontano comune a molti altri palazzi del quattrocento.

Per tornare ai Zirafa, ricchi e tirchi come ci racconta Pirandello nella celeberrima La Giara, erano padroni di vaste e ubertose terre denominate, non so quanto appropriatamente, feudi, dai nomi a me molto familiari, come Ciuccafa, Minaga, Cannatello ed altri ancora.

Non avendo, gli Zirafa, titoli nobiliari, c’è da sospettare che siano stati in antiquo furbi amministratori alla maniera del gattopardesco Calogero Sedara.

Degli Zirafa si parlava spesso in casa nostra, essendo lontani parenti di mia madre, ma molto vicini per frequentazione ed attaccamento, soprattutto nei confronti di quello straordinario personaggio che fu la fondatrice dell’ordine delle “Suore del Sacro Cuore”.

Suor Zirafa, come era comunemente chiamata, era una signora ricca, colta, bizzarra, animatrice dei salotti musicali della Girgenti di fine ottocento e del primo decennio del novecento. Palazzo Zirafa divenne, così, Istituto Zirafa, molto conosciuto come educandato fino agli inizi degli anni sessanta. Fu la che mi mandarono, ragazzina tredicenne, sotto la tutela della vecchissima Suor Rosalia che in quel collegio c’era quasi nata. Io fui subito etichettata come la nipote della “fondatrice” e da questo appellativo ricavai certo qualche vantaggio. Ero un’adolescente solitaria, poco incline a lasciarmi modellare dal nuovo ambiente e dalle sue regole. Poco alla volta, però, fui conquistata da colei che aveva il compito di occuparsi delle educande e di impartire loro quelle importanti norme di buona educazione che venivano chiamate Galateo. Allora, ai miei tempi, le norme civili del saper vivere erano definite “comuni” perché la maggioranza delle persone le osservava senza sforzo. Oggi non sono più comuni, sono “rare”. Il filosofo Arthur Shopenhauer scrisse: “L’egoismo ispira un tale orrore che abbiamo dovuto inventare le belle maniere per nasconderlo”. Oggi, però, nessuno si vergogna di mostrarsi egoista. Anzi… Quasi tutti sono convinti che l’altruismo sia segno di carattere debole e che favorire gli altri, anziché se stessi, sarebbe da scemi. E allora, avanti tutta per fregare il prossimo, offenderlo, calunniarlo, dileggiarlo, danneggiarlo, truffarlo. Anche i bambini, una volta così graziosi e gentili, sono divenuti aggressivi e maleducati. Dai grandi hanno appreso il linguaggio osceno e l’insolenza nei rapporti interpersonali. Disciplina, regole, punizioni sono del tutto assenti. Risultato: adolescenti ribelli, indomabili, disubbidienti. Grandi e piccoli, inoltre, fanno a gara ad alzare la voce per farsi valere, interrompono, si mostrano fieri di essere arroganti, prepotenti, chiassosi, provocatori e polemici.

Quando io ero giovane, chi si comportava in modo maleducato veniva disapprovato e allontanato. Oggi nessuno biasima e nessuno pensa di dare l’ostracismo ai maleducati. Persino la politica si fa con l’insulto e la calunnia. E nessuno trova niente da ridire. Le cose sono cambiate a tal punto che a vergognarsi sono soltanto le persone “beneducate”.

Per tornare alla istitutrice, i codici di comportamento a cui dovevamo sottostare erano rigorosi e tassativi, ma lei, la signorina Emilia Schiroli, era dolce e tenera, stravagante ed affascinante, irraggiungibile e leggiadra come fosse uscite dalle pagine di un romanzo di Liala. Non raccontò mai la sua storia, ma tutto il collegio sapeva che aveva dovuto rinunciare alla felicità e all’amore per occuparsi di due nipotini divenuti improvvisamente orfani. Si raccontava che il fidanzato, dinanzi alla determinazione di lei di rinunciare al matrimonio avesse pronunciato queste parole: “Tu eternamente vergine ed io eternamente scapolo”. Oggi una simile espressione provocherebbe sarcasmo e risate, a noi allora, faceva venire le lacrime agli occhi. Una volta, guardandola con ammirazione, le dissi: “Lei doveva essere davvero molto bella da giovane!”. La signorina Emilia tacque per un istante, poi esclamò: “Non ero bella, ero vaga!”. Trovai giusto, assolutamente giusto quell’aggettivo, e pensavo alle vaghe stelle dell’Orsa di leopardiana memoria. Era davvero irraggiungibile come una stella.

Le ragazze erano tante, quasi tutte più grandi di me e prossime al sospirato diploma. Dopo… le attendeva il sogno, l’amore, il nido unico e tutto per loro. La signorina Emilia ne controllava il portamento e l’acconciatura, la lunghezza della gonna e la cintura da stringere il più possibile, perché il vitino doveva essere, immancabilmente di “vespa”. Si doveva parlare sottovoce e con grazia. Urla e schiamazzi non erano consentiti. Consentito era, invece, cantare.. Ricordo ancora con commozione testi e musica di quelle romanze d’amore. Quando già le suore dormivano ci davamo appuntamento in terrazza. In camicia da notte e a piedi nudi andavamo a guardare le stelle ed a sospirare e a struggerci di nostalgia per la mamma lontana.

La chiusura dell’anno scolastico portava un turbinio di preparativi per la partenza, per il ritorno a casa. Si preparavano le valigie, si abbracciavano i genitori venuti a riprendersi le figlie. La signorina Emilia aveva lo sguardo assente e malinconico. Soffriva, ed io con lei. Sarebbe rimasta lì, non c’era nessuna casa fuori da quelle mura per lei, nessuno che l’aspettasse con ansia. L’estate, il sole, il cielo azzurro, nulla avrebbe cambiato le sue giornate. La messa la mattina presto e, poi, il ricamo o un libro da leggere, il pranzo nel refettorio vuoto e silenzioso, i vespri nella fredda penombra della fredda cappella e quelle litanie incomprensibili che non chiedevano né alla mente né al cuore di partecipare, ma solo alle labbra di muoversi. I sospiri d’amore erano solo per Gesù:

Gesù mio, fonte d’amore
io ti adoro e ti presento
ti presento l’alma e il cuore
ravveduto e penitente.
Oh se avessi io sola in petto
tutti i cuori dei beati
per amarti, o mio Diletto
e dolermi dei peccati.
Deh venite o Serafini
a veder sì gran stupore
sotto gli azzimi divini
occultato il Redentore

Povera signorina, così solare, così umana e sognatrice, così gentile e sensibile a tutte le cose belle della vita, costretta ad abitare quei tristissimi luoghi da dove si può fuggire solo con la fantasia.

Per le “single” di allora non c’era altro destino. Ora, per fortuna, i tempi sono cambiati. La “single” spesso lo è per scelta ed è libera e forte, autosufficiente e realista. Fuori c’è il lavoro, la carriera, ci sono gli amici e i viaggi. In casa, a farle compagnia, c’è, come ultima spiaggia, il bla bla della televisione, coi suoi programmi stupidi e volgari.

Delle ragazze di allora ricordo le sorelle Michela e Ninetta Cascioferro, Pina Farulla, le sorelle Dionisia, Maria, Livia e Violante De Marco, Rosa Lombardo, Vitina Milazzo, Maria Tragna. A loro, care splendide vecchie ragazza ultrasettantenni, voglio mandare, trasportato dal vento della nostalgia, un saluto che viene da lontano (non importa se qualcuna non c’è più), da tanto lontano, come lontano è, da noi, quel meraviglioso, irripetibile, fuggitivo tempo della giovinezza. (tratto da Facebook)