Tutte le volte che arriva la fine dell’estate, piuttosto che farmi vincere dalla malinconia, provo un inspiegabile sensazione di euforia. Come se il concludersi della stagione dell’indeterminatezza, della sospensione, del vivere alla giornata e di giornate talmente lunghe da potersi permettere un iperattivismo forzato e in favore di storia di instagram, sia una esito atteso e, sopratutto, agognato. Non c’entra il fatto che l’approssimarsi dell’autunno e della quotidianità scandita dalla riapertura delle scuole e della serate Champions (quanto mancano i mercoledì di Coppa, la verità), il vivere a quote più normali, infonde un senso di rassicurante normalità, tale che il corso dell’esistenza viene ad essere re-indirizzato verso strade conosciute e confortevoli.

Dell’estate ho sempre fatto fatica a sopportare la sensazione che tutto possa accadere, perché in fondo il clima vacanziero allenta le briglie del consentito. Nelle relazioni così come nella gestione dei rapporti, e dei sentimenti, è tutto un autoassolversi, perché questi tre mesi dobbiamo goderci la vita e poi a settembre se ne riparla. Ci si accontenta della schiuma, perché è in superficie che bisogna rimanere, esibendo scampoli di vitalità che avanzano a passo di carica tra una serata ed un’altra, tra una festa e l’altra, tra una giornata al mare e un fine settimana in un’isola rinominata. La massima esposizione della necessità di entrare in rapporto con gli altri e con il mondo, combinata con il minor grado di penetrazione e di interesse rispetto a quello che questi benedetti altri hanno da dirci, piuttosto che da mostrarci.

Sia chiaro: tutto lecito, tutto consentito, tutto opportuno, e tutto perfino auspicabile, nella misura in cui una certa leggerezza nel vivere è indispensabile. Ma, al momento di tirare una linea e tracciare un bilancio dell’estate appena trascorsa, tra quel successo dei Righeira puntualmente riproposto dalle radio e le prime piogge che spezzano la monotonia del caldo stagionale, questa attitudine ha sempre lasciato strada ad una sensazione di leggere inquietudine: quella di aver sacrificato sull’altare dell’effimero, autoimposto per convezione e necessità, rapporti e tempo che potevano essere spesi meglio.

Perché non è vero che tutto torna, o almeno si ripropone. A volte il destino è di doverlo guardare da lontano, affievolirsi nel ricordo fino a perdersi tra le curve della memoria come uno di quegli inascoltabili tormentoni degli ultimi anni. Anche le canzoni sono uno specchio dei tempi: nella nostra gioventù i Tears for Fears magnificavano l’estate con pezzoni come Break it down again, oggi ci tocca svenire al ritmo di Amore e capoeira. Per poi magari trovarsi, dopo settimane, a rimpiangere ciò che si era vissuto con superficialità pochi giorni prima, quando con un mojito nelle mani ci si è creduti padroni del mondo.

Decisamente non è la mia stagione preferita, l’estate. Ed ogni volta che tocca di salutarci, lo faccio davvero senza rimpianti.