Sui diritti civili la politica si divide più che su tutto il resto. Più che sull’economia e su altre questioni pure essenziali per la vita dei cittadini.

È normale che sia così. Il tema dei diritti, di quelli che sono ora in discussione, richiama aspetti etici e morali di estrema importanza, interpella la coscienza di ciascuno, suscita interrogativi, spacca le stesse forze politiche. Chi scrive per esempio qualche problema lo avverte sulla maternità surrogata, come lo avvertono molti cattolici che militano nel Partito democratico. Esistesse un clima più pacato, meno avvelenato dalla contrapposizione e meno sfigurato dall’arroccamento ideologico ed identitario, su questo e su altro ci si dovrebbe confrontare con maggiore serenità per tentare di trovare un terreno d’incontro che non coincida necessariamente con il perimetro della maggioranza o dell’opposizione. Si dovrebbe utilizzare un linguaggio meno urlato, manifestare una maggiore disponibilità al dialogo, avere rispetto innanzitutto per chi un diritto lo attende da tempo, magari riconosciuto in gran parte dei Paesi del mondo occidentale. La violenza verbale, l’assertività delle affermazioni in qualche caso perfino offensive accompagnano spesso le posizioni della destra sul tema dell’asilo dei migranti, su quello della cittadinanza, del riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso, e perfino sui bambini costretti a vivere nelle carceri con le loro madri condannate. Il vocabolario dei partiti illiberali, anche su altri argomenti, quasi per scelta è spesso duro, stridente, sopra le righe. I suoi esponenti rifuggono volutamente dalla pacatezza, dal metodo dialogante, per trasmettere l’immagine di uomini e donne che vanno per le spicce, che hanno certezze ferrigne, che non si lasciano impelagare in riflessioni e ragionamenti che li distolgano dall’obiettivo. Cercano adesioni identitarie, fideistiche piuttosto che convinte. Alla base vi sono appunto una cultura illiberale e la certezza che quelle posture, quel tono risoluto e liquidatorio colpiscano più immediatamente la gente comune, la quale percepirebbe con immediatezza quel linguaggio ritenuto più vero e autentico di quello utilizzato da chi sta a sinistra, da una minoranza di snob che si appassiona ai diritti civili e non si rende conto che la maggioranza degli italiani ha altri problemi e diverse priorità. Sarà davvero così? Senza analogie forzate che la storia non consente, mi viene in mente una lontana vicenda che riguardò appunto diritti civili. Nel 1974 per la prima volta nella storia del Paese si svolse un referendum abrogativo sul divorzio, introdotto dal Parlamento alla fine del 1970.

I componenti il comitato promotore, la Democrazia cristiana e il Movimento sociale italiano si impegnarono in una battaglia elettorale dura, convinti di incontrare il consenso dell’Italia profonda, di quella legata ai valori tradizionali della famiglia, lontana dai gruppi elitari che avevano voluto il divorzio e che potevano permetterselo. Si direbbe oggi quelli della ZTL. La Dc aveva vinto le elezioni del 1972 con il 38,66% dei voti e i neofascisti avevano ottenuto l’8,67. Era questa una base molto solida alla quale si sarebbero aggiunti altri specialmente del Sud e molte donne che con il divorzio, sostenevano i promotori della sua abolizione, avrebbero pagato il conto più elevato. Il timore era anche condiviso dai comunisti che sarebbero stati disponibili ad evitare il voto referendario con una modifica della legge. “La famiglia deve vincere”. “Per l’integrità della famiglia”. “Tutelare i diritti dei figli, degli innocenti, dei deboli”. Erano questi alcuni dei messaggi con i quali gli antidivorzisti pensavano di ottenere il successo. Ad esso credette Amintore Fanfani, segretario democristiano, che si intestò e condusse lo scontro con toni che ricordano quelli di alcuni dei protagonisti della vita politica odierna. Malgrado una formazione e una cultura che lo avrebbero dovuto rendere lontanissimo da quelle dell’attuale Presidente del consiglio e da Salvini, Fanfani cavalcò con impegno e perfino con veemenza la proposta referendaria, legando al suo buon esito la prospettiva di un rilancio del partito che guidava. Utilizzò talora toni e argomentazioni che sarebbero stati più propri dell’attuale capo dei leghisti anziché di un colto e sperimentato leader della Prima repubblica.

Era convinto, come tanti altri, che nel Sud e in Sicilia il no al divorzio sarebbe largamente prevalso. Di questa certezza ebbi una diretta prova a Caltanissetta, quando ai parlamentari democristiani, riuniti con lui prima del comizio, chiese una previsione sul risultato in Sicilia. Per convinzione o per piaggeria tutti pronosticarono la prevalenza del no. Espressi un’opinione più problematica venendo aggredito dal segretario democristiano che non amava essere contraddetto e quasi irriso dai colleghi. Nel comizio, poi, Fanfani invitò i numerosi ascoltatori presenti a stare attenti, che se il divorzio fosse stato confermato,  tornando a casa, avrebbero potuto scoprire che le mogli erano fuggite con le loro cameriere. Un rischio del tutto incomprensibile ai presenti, non potendo immaginare il motivo per il quale le loro mogli avrebbero dovuto fuggire con le cameriere quando nessuno dei presenti probabilmente aveva le cameriere. Si trattò di una banalità perfino volgare, impropria in un uomo come Fanfani, semmai prova di come lo scontro sui temi valoriali anche allora devastava il confronto. Il divorzio venne confermato con più del 59% dei voti e in Sicilia, a differenza di ciò che avvenne nelle altre regioni meridionali dove prevalse il sì, ottenne il 50,58%. Fu smentito chi aveva immaginato la permanenza di una società ferma, arcaica, di una sensibilità legata a valori o a presunti valori immodificabili. Si scoprì che non si poteva fermare la Storia, non si riusciva a a tenere il Paese nello stesso campo nel quale erano gli spagnoli e i portoghesi sottoposti a regimi fascisti o reazionari e lontani di conseguenza da quella dei cittadini dei Paesi liberali. La Democrazia cristiana sul tema dei diritti civili si era voluta impropriamente cimentare in una battaglia di retroguardia insieme ai neofascisti, subendo una pesante sconfitta. I cattolici e la Chiesa dovettero prendere atto che la laicizzazione non poteva essere bloccata per legge, attraverso l’obbligo del vincolo matrimoniale. Tempi diversi e lontani. Eppure si può scorgere qualche analogia con quelli che viviamo. Chi governa oggi preferirebbe che il Paese fosse più simile all’Ungheria e alla Polonia piuttosto che all’Inghilterra e alla Germania. Può darsi, lo dico in forma dubitativa, che la società, anche parte di quella con la quale immaginano di potere dialogare, sia più avanti delle loro paure.

Nella foto: Calogero Pumilia