“Non vi è peggiore ingiustizia della tardiva giustizia…”
(Rudolf Von Jhering)

Una delle opere, in forma di romanzo, più filosoficamente innovative degli ultimi decenni è quella di Milan Kundera. La sua intuizione psicologica travalica la vicenda che egli narra negli anni in cui la violenza della Storia stava sommergendo i sogni di libertà dei cittadini praghesi. “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è descritta come una strana possessione che pervade l’anima di chi è cosciente della forza del tempo. Concetto difficile, questo, tanto quanto l’entità imprendibile e indefinibile che scandisce la vita di ogni essere sulla terra.

L’autore scopre al lettore la sua fragilità fin dalla prima pagina del romanzo e dialoga con sé stesso sugli strani effetti del fluire della vita. Guardando una foto stinta ed ingiallita di Adolf Hitler, a circa quarant’anni dalla fine della guerra, il narratore non riesce a nascondere un imbarazzo. Assume che quella foto sintetizza tutta la tragedia sanguinosa di un’epoca, ma qualcosa la fa essere teneramente evocativa.

Sì, avete letto bene: per l’autore, qualcosa di incredibilmente umano poteva nascondersi dietro il viso ingiallito del massacratore pazzo. Perché – ed è qui che si dipana tutta la contraddizione filosofica – quella foto rappresentava un tempo della vita del protagonista che non sarebbe mai più tornato. Ed allora, malgrado egli avesse perso tutti i suoi cari nei campi di concentramento e fosse stato ferito indelebilmente dalla guerra, ebbene, cosa poteva essere tutto quel dolore subìto di fronte ad un tempo della sua vita che non sarebbe mai più tornato?

La foto del dittatore era, quindi, una specie di allarme che la coscienza elevava all’anima pensante per indicare qualcosa di non perfettamente sano. La leggerezza dell’essere, scoperta da Kundera, incideva sul rapporto tra passato e memoria umana facendo prevalere una specie di dolce oblio rimotivo.

Quale dolore, infatti, poteva infliggere un Robespierre che più non tagliava la testa dei francesi? Egli diventava, addirittura, un eroe romantico.

A questa singolare (e, forse, enfatica) ricostruzione ho pensato leggendo la riforma sulla Giustizia. Vi chiederete in qual modo possa avere interagito l’insostenibile leggerezza dell’essere con ciò che intende rivoluzionare le sorti di una agonica quotidianità. Ebbene, cosa altro non è la prescrizione dei processi se non il rullo compressore del tempo sulle condotte (in questo caso delittuose) umane?

La verità è che una cosa è giudicare un fatto subito dopo che è accaduto, consegnandolo fotograficamente al suo passato; un altro è valutarlo dopo tanti anni. E non perché si perdano le prove, svaniscano i testimoni, cambino i giudici o per altro di simile ancora. Ma per la semplice ragione che le cose precipitano verso quello che gli psicologi chiamano “ottimismo mnestico”, ossia il perdono di sé stessi che il tempo concede agli umani.

Adesso, spiegare questo concetto al Parlamento ed al Ministro mi appare assai irriverente.

Tuttavia, riflettete sul fatto che una delle prima materie che si studia in Giurisprudenza è proprio la filosofia del Diritto (che di questo Diritto ne è il rovescio). Meditate sulla circostanza che, nel nostro meraviglioso Paese, vi sono migliaia di criminali – con decine di pagine di precedenti penali – che continuano a delinquere con l’avvocato pagato dalla collettività a gratuito patrocinio (del tipo continua pure i tuoi crimini tanto il difensore te lo paga pure lo Stato…).

Una specie di tragico gioco di società in cui non vi è Giustizia, ma solo oblio e perdono di ogni delitto commesso.