Fosse per Raffaele Stancanelli, non ci sarebbe alcun dubbio: “Sono un uomo di coalizione. Il centrodestra unito è possibile”, ha detto l’europarlamentare di Fratelli d’Italia, conversando con i giornalisti a Strasburgo, a margine della plenaria. Ma dentro il partito della Meloni, forse, non tutti la pensano allo stesso modo. Compresa Giorgia, che riportando Musumeci alla casa madre, attraverso una “federazione” con allegata una polizza vita sul futuro del governatore, ha finito per indispettire tutti. Il dialogo col resto degli alleati è ai minimi storici e non ha affatto beneficiato del duello con Salvini per la leadership della coalizione, esploso malamente dopo l’elezione di Mattarella (che FdI non ha sostenuto, e Musumeci nemmeno, per la corsa al Colle).

La posizione isolazionista della Meloni, nonostante le smentite di rito dello stesso Stancanelli (il più distante dall’ortodossia pro-Nello), è indotta dagli alleati che in questa fase – in Sicilia – non hanno alcuna voglia di assecondare i suoi desiderata. In primis, la tentazione di cancellare le orme di malgoverno di Musumeci, che in questi anni ha litigato con i partiti e i colleghi della (ex) maggioranza, oltre ad aver determinato una serie di incompiute sul piano delle riforme. Tanto meno la richiesta di ricandidarlo perché è “naturale” che sia così. Il risultato alle ultime Amministrative a Roma, Napoli e Milano, le scorie lasciate dal Romanzo Quirinale, ma soprattutto l’evoluzione del quadro siciliano, avrebbero meritato ulteriori approfondimenti. Una valutazione più attenta sui passi da compiere. Invece la Meloni, influenzata dal pressing di Manlio Messina, e trainata dagli esponenti di punta di Fratelli d’Italia (da Ignazio La Russa a Giovanni Donzelli a Francesco Lollobrigida) ha rotto l’incantesimo del ‘Musumeci sì, Musumeci no’ proprio nei giorni che precedevano il Colle. Dando la sensazione di una prova muscolare che ha riscontrato scarso gradimento da Salvini in giù. Proprio mentre nell’Isola calava il gelo sul proseguo di questo governo.

Un clima esasperato dalle uscite del colonnello Nello all’indomani del voto sui grandi elettori all’Ars, a metà gennaio, che aveva relegato il presidente della Regione in carica al terzo posto – l’ultimo – garantendogli l’ingresso nel team dei votanti per il rotto della cuffia. A quell’episodio è seguito il videomessaggio, polemico e a tratti volgare, del governatore (che riferì di un “atto di intimidazione” ai suoi danni da parte di “sette scappati di casa”) e la presa di distanza definitiva da parte del centrodestra, che aveva già provveduto a sfiduciarlo più volte – soprattutto dal versante Forza Italia – con l’utilizzo del voto segreto ma anche pubblicamente.

Oggi Fratelli d’Italia si ritrova nell’imbarazzo di dover definire il proprio destino. Di decidere se continuare a cavalcare un cavallo “perdente” fino alle estreme conseguenze – spaccando la coalizione, già fortemente compromessa per le Amministrative, anche alle Regione – oppure adottare una decisione di buonsenso, riconducendo la trattativa sui canali della diplomazia, senza esigere un inchino di fronte ai sondaggi che vedono FdI in testa alle classifiche di gradimento (intorno al 15%). Magari utilizzando una risorsa come Stancanelli, che ieri da Strasburgo è tornato sull’unità della coalizione. L’unico, per storia e pedigree, in grado di parlare con tutti: da Micciché a De Luca. Ciò significherebbe dare un segnale a Palermo, dove la Varchi resta comunque una proposta autorevole; ma anche alla Regione, decidendo di posticipare il redde rationem dopo il 12 giugno, quando anche i rapporti fra Salvini e Meloni, probabilmente, si saranno rasserenati.

Questi giorni di trattative frenetiche, di veti incrociati e di esclusioni, paventano un rischio molto forte per Giorgia: non riuscire a capitalizzare un voto d’opinione che al momento, anche in Sicilia, va per la maggiore. Significherebbe perdere di vista l’unica cosa che conta: cioè dare alla Regione un governo di centrodestra che rimane radicato nel sentimento popolare. Essersi affidata a dei “papi stranieri”, con tutto il rispetto per La Russa originario di Ragalna, (evidentemente) non restituisce alla Meloni un quadro complessivo. Che parla di una base del partito turbolenta, e per nulla desiderosa di spartirsi i seggi all’Ars coi fedelissimi di Musumeci; e osserva infastidita gli alleati “storici” intenti a fare comunella per emarginare le posizioni “sovraniste”. Il timore di ritrovarsi fuori da tutto, senza riuscire a sfruttare la vagonata di voti prevista dai sondaggi, è forte. Non sarà certamente “un partito del 2-3%” come nel 2019, ma da baricentro della coalizione a presenza marginale è un attimo.