Sarà anche vero, come ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, che “la regola della trasparenza è quella cui non intendiamo rinunciare”. Ma è altrettanto vero che il governo Conte, fino a qualche giorno fa, ha fatto le bizze. E si è appellato al Consiglio di Stato per chiedere che i verbali del Comitato tecnico scientifico (Cts), in base ai quali è stato predisposto il lockdown (con Dpcm del 9 marzo), rimanessero sottochiave. Secretati. Poi, a seguito delle insistenze sollevate dalla Fondazione Einaudi e del pronunciamento del Tar del Lazio, che aveva già chiesto di rivelarle, ha optato per la gentile concessione. Così, ieri pomeriggio, è riemersa e data in pasto agli internauti. Chi si è speso in questa battaglia di trasparenza è stato l’avvocato messinese Andrea Pruiti Ciarello, che, assieme ad alcuni colleghi, in piena pandemia, aveva premuto il tasto ‘play’ per capire cosa avesse determinato l’azione del governo. “Abbiamo fatto istanza di accesso agli atti solo per quei verbali citati nei Dpcm – spiega Pruiti -. Ma ne esistono degli altri, mi riferisco a quelli di fine febbraio e inizio marzo, che abbiamo conosciuto solo ieri e che all’epoca, invece, ignoravamo”.

La Fondazione Einaudi, una onlus che si occupa di studi di politica, economia e storia, ha pubblicato i verbali entrati in suo possesso. Da cui si evince che il governo Conte ha dichiarato il lockdown in tutta la nazione nonostante il Comitato tecnico scientifico suggerisse “chiusure differenziate”.

“Questa è la prima discrasia. Nel mese di marzo, infatti, il Cts aveva indicato delle strategie di contenimento e restrizione diverse rispetto a quelle, poi, adottate dal governo. La “zona rossa” doveva riguardare le zone indicate nel verbale del 7 marzo (la Lombardia e le province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro-Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti, ndr), mentre il governo, due giorni dopo, ha deciso di dichiarare il lockdown in tutta Italia. La cosa che salta all’occhio, verificabile dallo stesso Dpcm, è che il presidente del Consiglio abbia sostenuto come la decisione di chiudere il Paese dipendeva dalle informazioni diramate dal Comitato. E’ l’esatto contrario”.

Significa che il governo non ha raccontato tutta la verità?

“Ho letto trecento pagine di verbali e c’è qualcos’altro che non coincide col racconto: sia per quanto riguarda la durata massima del lockdown, che per le misure sanitarie previste e non adottate. Ma anche sull’uso delle mascherine, che erano state indicate solo per i malati, mentre poi sono state imposte a tutti gli italiani. Grazie alla nostra azione, finalmente, si è fatta un po’ di luce sulla gestione dell’emergenza Covid. Per questo ringrazio i colleghi Enzo Palumbo, Rocco Todaro, Federico Tedeschini, Nicola Galati ed Ezechia Paolo Reale”.

Tra i verbali mancanti c’è quello delle riunioni sulla Val Seriana. Che non fu mai dichiarata “zona rossa”.

“Perché non era citato dei Dpcm di cui sopra, e quindi non li abbiamo richiesti. Personalmente auspico che il governo, dopo questa apertura un po’ tardiva, possa desecretare e rendere pubblici tutti i verbali”.

Prima di arrivare al gesto di apertura degli ultimi giorni, il governo si era rifugiato al Consiglio di Stato, appellandosi contro la decisione del Tar di rendere pubblici i verbali. E giustificando questa decisione con motivi di ordine pubblico e sicurezza. Condivisibili, secondo lei?

“Assolutamente no. Nelle carte che ho letto, non ravviso alcun elemento o informazione che possa stravolgere, ma nemmeno turbare, l’ordine pubblico. Ci sono valutazioni tecnico-scientifiche, informazioni epidemiologiche, informazione tecniche sulla gestione dell’emergenza sanitaria riguardo macchinari, respiratori, mascherine. I motivi per cui il governo ha deciso di restringere l’accesso agli atti e continuare sulla strada della “non trasparenza”, appellandosi alla sentenza del Tar, sono tuttora oscuri”.

Qual è il senso della battaglia della fondazione Einaudi. Perché è così importante conoscere le decisioni del Comitato tecnico scientifico, anche a distanza di mesi?

“Noi abbiamo detto sin dall’inizio che si trattava di una battaglia di metodo più che di merito. Per affermare il principio che non vi può essere partecipazione sociale, né responsabilità civile senza la necessaria consapevolezza. Solo conoscendo i rischi, i cittadini possono tutelare se stessi e gli altri da un punto di vista sanitario. Se l’obiettivo era non spaventare l’opinione pubblica, il governo avrebbe dovuto spiegare meglio, nelle numerose conferenze stampa della protezione civile, tutte le informazioni, in modo tale che tutti potessero comprenderle. Noi abbiamo voluto affermare un principio di diritto, di civiltà giuridica, di trasparenza, e consentire agli italiani di conoscere le motivazioni vere per cui sono stati segregati in casa 69 giorni”.

La Sicilia è una di quelle regioni che ha pagato un prezzo altissimo al lockdown. Poteva essere evitato?

“Da cittadino italiano e siciliano, posso dirle che la decisione del governo non mi ha convinto affatto. Non ritengo ci fossero i margini per assumere una decisione politica differente rispetto a quanto prospettato dal Comitato tecnico scientifico. La Sicilia, così come la Calabria, la Basilicata, la Puglia, sono regioni che hanno avuto un bassissimo indice di contagio, l’indice Rt più basso d’Italia: questo significa che il rischio era molto contenuto. Eventualmente, qualora ce ne fosse stata la necessità, avrei preferito delle restrizioni localistiche, magari nei comuni più a rischio. Con qualche presidio di igiene personale in più – come indossare la mascherina o lavare bene le mani – si sarebbero potuti evitare i danni economici arrecati da questa chiusura forzata. Le responsabilità connesse alle decisioni assunte dal governo, dovranno essere oggetto di un’analisi più approfondita dei mezzi di comunicazione, ma soprattutto nelle sedi istituzionali competenti”.