Renato Schifani ha scelto il suo asso nella manica: si chiama Edy Tamajo, mr. Preferenze all’Ars, “capitano” delle Attività produttive. Uno dei pochissimi ad avere voti, capacità, un padre assessore nella giunta Lagalla e un portafogli capiente. Tamajo, il ras di Mondello, sarà candidato alle prossime Europee nella lista di Forza Italia. L’ha annunciato Schifani durante il congresso provinciale di Palermo (“Ci darà grandi soddisfazioni”). Nonostante il cruccio di perdere “un assessore di spicco che sta lavorando bene”. Ma è un passo che va fatto: a) per assicurare alla lista un bottino di voti capace di far scattare il seggio; b) per mettersi in luce agli occhi di Antonio Tajani, che così non potrà più ignorare il peso della classe dirigente siciliana; c) per assestare un calcio negli stinchi a Marco Falcone e tornare a essere detentore della linea del partito, dopo gli scricchiolii post-Taormina.

Una sorta di rivincita che non sarebbe intaccata da un’eventuale candidatura dello stesso Falcone. Perché a Taormina, in novembre, erano successe due cose: che Falcone venisse accolto con l’entusiasmo riservato ai grandi (dai dirigenti romani del partito); e che Totò Cuffaro – come confermato dallo stesso Schifani – fosse scaricato da un taxi in corsa, e costretto a candidarsi da solo. Una sconfitta che al presidente della Regione ancora brucia. Schifani però ha già scelto chi cavalcare: Tamajo, che difficilmente accetterebbe una candidatura di servizio (regalando a qualcun altro il seggio a Bruxelles), è l’uomo giusto al momento giusto. Perché è arrivato in Forza Italia da poco, perché ha un grande consenso elettorale, quasi smisurato, e non “minaccia” sgambetti. Almeno fin quando non scoprirà che qualcuno vorrà utilizzare i suoi voti in altri tavoli, per avvantaggiarsene.

Ma il piano di Schifani, applicato a questa fase storica, non fa una grinza. Nel giro di pochi mesi, innaffiando il proprio ego, è riuscito a mettere in un angolo i principali “antagonisti”. Totò Cuffaro, prima che un potenziale antagonista, era un grande amico del governatore. Che però non è riuscito a difendere l’idea di un listone che comprendesse anche la Democrazia Cristiana. Lo Scudo, alle Europee, si apparenterà coi cespuglietti di centro (da Mastella a Noi con l’Italia) senza alcuna velleità di raggiungere il 4 per cento a livello nazionale. Una posizione mortificante per chi ha contribuito al successo di Schifani alle ultime Regionali e in questa prima fase di legislatura, nonostante le resistenze di alcuni alleati, ha garantito lealtà verso i provvedimenti del governo. Recentemente Cuffaro si è un po’ stufato e l’ha spifferato chiaramente a margine delle nomine dei manager della sanità, invocando la via del sorteggio. Tuttavia non ha intenzione di tirarsi fuori. Cosa che, forse, farebbe più che volentieri Raffaele Lombardo. La manovra a tenaglia sul leader degli Autonomisti – da un lato il depotenziamento dell’assessore Di Mauro sui rifiuti, dall’altro i tentativi di Sammartino di far abortire la federazione fra Lega e Mpa – potrebbe portare a esiti imprevedibili.

Dopo aver silurato sia Cuffaro che Lombardo (che da alcune indiscrezioni di ‘Repubblica’, smentite da Totò, farebbero fronte comune per assicurarsi almeno la guida delle province di Catania e Agrigento) a Schifani rimaneva un altro bersaglio grosso: Marco Falcone. Ossia la stella più luminosa (e in ascesa) di Forza Italia, l’assessore più produttivo e più diplomatico dell’intero governo, capace di trattare maggioranza e opposizione alla stessa stregua. E capace di chiudere un bilancio senza esercizio provvisorio, come non accadeva dal 2003. Ne ha subito di umiliazioni lungo il percorso (dal ritiro della delega alla Programmazione, passando per la nomina del consulente Armao ai fondi extraregionali) ma non ha mai chinato la testa. Non la chinerà neppure adesso che Schifani – ieri volutamente assente al congresso di Viagrande, per dibadire la “distanza” – ha scelto deliberatamente Tamajo, spostando il baricentro di FI verso Palermo.

Il primo, vero banco di prova di questa gestione Renato-centrica e di queste strategie singolari, sia alla Regione che nel partito, arriverà entro martedì con la nomina dei direttori generali delle ASP. Poi dovrà reggere alla prova delle Europee e delle provinciali. Ma in questa Forza Italia da dodici mila iscritti (in Sicilia), dove lo stesso Schifani ammette “qualche problema interno di territorialità”, risulta strano che il presunto leader, Marcello Caruso, non sia investito della responsabilità di scendere in campo per trascinare la lista (c’è il rischio che il commissario regionale e gli organi collegiali vengano percepiti come una grande finzione) e venga illuso con la promessa di diventare il prossimo presidente della Provincia di Palermo (entrando in rotta di collisione con Fratelli d’Italia); o che lo stesso Schifani, seguendo l’esempio della Meloni, non si impegni in prima persona per offrire al popolo dei moderati quella motivazione extra per recarsi alle urne. Il governo della Sicilia è compatibile con la candidatura a Strasburgo, perché tanto la campagna elettorale finirà per assorbire tutti: dagli assessori ai deputati dell’Ars. Schifani però non valuta questa possibilità. Si affida all’usato sicuro, ai comandanti delle truppe più affiatate, che possano garantire anche la sua sopravvivenza.

Non si tratta della pratica più trasparente e meritoria per perseguire i propri obiettivi: cioè ottenere la giusta considerazione da parte di Tajani per accaparrarsi il ruolo di vicesegretario di FI per il Mezzogiorno. Ma tant’è. Forza Italia sarà pure il grande partito della tradizione centrista, la casa dei moderati da trent’anni a questa parte, ma nell’Isola resta la solita scatola vuota da cui manovrare e amministrare i propri rancori; da cui articolare strategie che nel breve periodo garantiranno la sopravvivenza (personale più che altro), ma che, sulla distanza, potrebbero condurre dritti all’irrilevanza, se non addirittura all’estinzione.