La sanità siciliana se la passa malissimo, ma questo al presidente Nello Musumeci sembra interessare poco. Il governatore prova a tirare la coperta dalla propria parte, affermando che la campagna vaccinale ha ripreso “a ritmi sostenuti” (sopra i ventimila inoculi al giorno); rimarcando il coinvolgimento dei medici di famiglia (ma il protocollo d’intesa, firmato l’8 marzo, stenta a decollare); lodando il generale Figliuolo, “uomo del fare”, che ha concesso 1.350 nuovi operatori per le iniezioni. Ma il tema inquietante degli ultimi giorni – che ieri Musumeci ha preferito minimizzare, tirando in ballo l’Istituto superiore di sanità – è quello che riguarda la validità dei dati epidemiologici. E le misure che d’impero che, tramite ordinanze ben assestate ai fianchi degli operatori commerciali, vengono adottate non avendo una contezza effettiva dei numeri.

Ad esempio, la dichiarazione di “zona rossa” per la provincia di Palermo, che mette e repentaglio uno dei tessuti economici più deboli della Sicilia, è arrivata prima che venisse superata la soglia dei 250 casi per 100 mila abitanti. Anche a Palermo città si è deciso di chiudere tutto nonostante la discordanza (appurata) fra i numeri indicati dall’ufficio Statistiche del Comune e quelli consegnati dall’ufficio del commissario per l’emergenza, Renato Costa, che riteneva di dover “depurare” i dati ufficiali dai migranti delle navi quarantena o dai positivi delle isole di Linosa e Lampedusa, che non dovrebbero fare cumulo (appartengono al distretto sanitario di Palermo, ma non c’entrano molto col destino degli esercenti di via Libertà). Un episodio che ha lasciato di sasso anche il presidente dell’Assemblea regionale, Gianfranco Micciché, che ha deciso di convocare in audizione i vertici dell’assessorato alla Salute – già, ma quali? – perché “vorrò essere io stesso a valutare le scelte che sono state adottate”. Il vento della polemica percorre tutto l’arco parlamentare: da sinistra a destra, con rarissime eccezioni.

Gli indicatori epidemiologici non sono numeri di scena, o elementi a corredo dei video su Facebook o degli articoli sui giornali. Da oltre un anno rappresentano la stella polare che guida le decisioni (difficili, per carità) della politica, ma dovrebbero basarsi su criteri oggettivi che da un po’ di settimane a questa parte mancano. Come spiegare, altrimenti, la comparsa di 258 nuovi decessi di cui (quasi) tutti – finora – erano rimasti all’oscuro? O di seimila nuovi guariti che avevano fatto perdere le loro tracce nelle ultime due settimane? Questa confusione, divenuta drammatica, è coincisa con la bufera che si è abbattuta sull’assessorato alla Salute, che dal 30 marzo, con l’arresto di tre funzionari e l’avviso di garanzia all’assessore Razza, sembra aver polverizzato ogni certezza. Sindacare sull’abilità di caricamento dati, sulla correttezza e trasparenza dell’informazione, sulle modalità di calcolo e sulle procedure utilizzate (“I morti? Spalmiamoli un poco”, ha detto l’assessore), su chi viene prima fra Protezione civile e Istituto superiore di sanità, ha finito per scavare una voragine di credibilità nei confronti della Regione. Che significa essenzialmente due cose: la totale perdita di fiducia da parte di cittadini e associazioni di categoria; e le azioni consequenziali – nei tribunali, ad esempio – che rischiano di abbattersi come un tornado su un’istituzione già ammaccata.

Confcommercio, ad esempio, ha deciso di fare causa alla Regione, chiedendo un risarcimento danni da 50 milioni di euro per l’ennesima chiusura predisposta sulla pelle dei lavoratori: “Siamo stanchi di una classe politica che agisce come un “notaio” e assume posizioni pilatesche o addirittura autoritarie e arbitrarie – ha detto Patrizia Di Dio, presidente della sezione palermitana -. Noi rispettiamo le disposizioni ma vorremmo essere certi che non ci troviamo dinanzi ad abusi, visto che i dati non sono quelli che sancivano la zona rossa secondo i parametri nazionali”. Il riferimento è a Palermo e a dintorni. Ma nel frattempo oltre un quinto della popolazione siciliana (più di trenta comuni) sguazza nella zona rossa: anche se l’assenza di controlli e la presenza di assembramenti, fa pensare che no, questa volta “non ce la faremo”. E’ passato anche l’ultimo vagone.

Musumeci ha poche chance di risollevarsi. Specie se, come ha ribadito ieri, manterrà sine die (o comunque, fino alla riabilitazione del delfino Razza) l’interim alla Salute, assumendosi il compito (arduo) di dirigere le operazioni in assessorato come fa il “vigile” Alberto Sordi a piazza Venezia. Un presidente della Regione dovrebbe fare altro. Invece Musumeci si è incaponito nella sua versione una e trina: governatore, assessore e commissario per l’emergenza Covid, sebbene questa ultima mansione sia messa in discussione da un intervento del Pd, che l’altro ieri ha salutato con fervore la decisione del sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, di accogliere “pubblicamente la nostra richiesta di dare luogo ad ogni approfondimento e accertamento necessario per appurare la compatibilità e opportunità di mantenere il presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci, alla carica di commissario regionale per l’attuazione della strategia di contrasto alla diffusione della pandemia”. Il presidente vacilla di fronte ai suoi silenzi, che oggi appaiono stridenti più di ieri.

L’unica occasione per fare chiarezza, in aula, è stata utilizzata male: durante il dibattito a Sala d’Ercole, infatti, è tornato utile a Musumeci per ribadire la propria estraneità rispetto ai fatti contestati dai magistrati, a riaffermare la propria superiorità morale (“Sono una persona perbene e non mi dimetto. Solo i vili lo fanno”) e le proprie convinzioni rigoriste. Non – giammai – a fare luce sull’opacità dei numeri, che incide profondamente sul giochino dei colori e sulla carne viva dell’economia isolana, sui micro imprenditori che da oltre un anno vivono di stenti. E che, ciò nonostante, la politica non accenna a ristorare (ci sono in ballo i 250 milioni di fondi strutturali che Roma, prima o poi, dovrebbe sbloccare). Questa farsa, inoltre, non rende giustizia al lavoro di medici, infermieri e operatori sanitari eccellenti, che nell’ombra della “solita sanità” stanno portando avanti un lavoro prezioso. Alla Fiera del Mediterraneo, a Palermo, c’è chi arriva fino a mezzanotte per garantire un vaccino in più; eppure, anche l’operato di questi “missionari” rischia di essere risucchiato nel buco nero delle code, delle attese, delle inefficienze organizzative. Che peccato.

A proposito di vaccini. Al di là della foga entusiastica dei comunicati (in cui si parla di più di ventimila iniezioni al giorno), restano un sacco di cose da fare: la prima, allestire gli hub rimanenti, che servono a decentrare la campagna e agire più velocemente; raddoppiare le dosi somministrate, come richiesto da Figliuolo; far rispettare le file. Eh già. Esaurita la smania dei furbetti, andrebbe chiarita la richiesta di accesso agli atti da parte della commissione parlamentare Antimafia, che ha individuato nella categoria ‘altro’ la strada più battuta per le somministrazioni. Chi ne fa parte e perché? Domande a cui bisognerebbe dare risposte puntuali, certe, esaustive. Invece il presidente-assessore è ancora trincerato nel silenzio. Usa gli incontri coi direttori generali delle Asp per sfogarsi contro i “delinquenti politici” che hanno creato un processo “basato sul nulla”; ribadisce la linea dell’attesa, perché prima o poi Razza tornerà; attacca a più non posso gli ex esponenti del governo Crocetta, come se avessero voce in capitolo nella battaglia del secolo; contesta il metodo utilizzato per la ripartizione delle risorse del Recovery Plan, chiedendo a Draghi di cambiare passo; invoca ristori da Roma, quando il suo governo è stato il primo a non concederne. Punta il dito sempre contro qualcun altro. Semplicemente, perché è più comodo.