Ricordate l’Espi? Acronimo di ente siciliano per la promozione industriale, rappresentò il tentativo della Regione di farsi impresa. Nato negli anni ’60, l’ente aveva numerose partecipazioni societarie (la casa vinicola Duca di Salaparuta, i Cantieri navali di Palermo, la Siciliana Gas, la Sicilvetro) e 500 dipendenti al suo servizio. Ma nel ’99 viene posto in liquidazione. Ebbene, la procedura, a distanza di 22 anni, non si è ancora conclusa. La situazione si trascina per una singola causa di risarcimento danni in sede civile. L’Espi ha tuttora un commissario liquidatore, la signora Anna Lo Cascio (che però ha rinunciato al compenso per le attività residue) e un collegio straordinario di revisori dei conti, normalmente retribuiti. Su di esso ha (ri)puntato i fari Luigi Sunseri, deputato regionale del Movimento 5 Stelle, a seguito della mega inchiesta sulla società partecipate della Regione e sugli sprechi da esse prodotte. Gemello dell’Espi, è l’Ems (Ente Minerario siciliano), di cui è stato. Anch’esso in liquidazione dal 1999. Totò Cuffaro non era ancora arrivato a Palazzo d’Orleans.

Di questi Enti – messi nel mirino dall’accordo Stato-Regione, che ne sollecita la conclusione delle procedure di liquidazione coattasi occupa, in due righe, il piano di rientro dal disavanzo allegato all’ultima Finanziaria approvata all’Ars. Che, nel tentativo di dimostrare l’impegno del governo su questo fronte, recita: “Ente Minerario Siciliano (EMS) ed Ente Siciliano Promozione Industriale (ESPI) in vigilanza e controllo presso l’Ufficio speciale per la chiusura delle liquidazioni”. Si tratta dell’ufficio della dirigente Rossana Signorino, alle prese con questi casi “disperati”. E che, ad esempio, si sta occupando delle procedure di liquidazione delle Terme di Sciacca e delle Terme di Acireale, così come dell’Eas, l’Ente acquedotti siciliani, la cui pratica è stata avviata nel 2004. In liquidazione ci sono tuttora i dieci consorzi Asi (aree di sviluppo industriale) che nel frattempo sono stati rimpiazzati dall’Irsap, sottoposto – fra l’altro – a un primo processo di riforma in Assemblea. Una storia patetica.

Così come patetica, e costosa, è la storia di Sicilia Patrimonio Immobiliare, una delle 8 società in liquidazione (gli enti, invece, sono 47), partecipata al 75% dalla Regione: si tratta della creatura che, per la destrezza del suo socio privato (Ezio Bigotti) e la presunta complicità di qualcuno ai piani alti, si arricchì grazie a un censimento ‘fantasma’ del patrimonio immobiliare regionale, che oggi è stato ritrovato ma risulta inservibile. Inutilizzabile. Cento milioni, intanto, si sono volatilizzati verso alcuni paradisi fiscali, a partire dal Lussemburgo. E nessuno, né la politica tanto meno la magistratura, è riuscito a tracciare e ricostruire questo sporco giro. L’attuale amministratore della società ha un trattamento economico da 60 mila euro. C’è anche un comitato di sorveglianza, il cui presidente percepisce 15 mila euro di trattamento. I dati sono pubblici.

In quattro anni il governo Musumeci non è riuscito a completare una sola procedura di liquidazione, anche se, nel piano di rientro citato in precedenza, dichiara che “al fine di rispettare gli impegni previsti nell’Accordo Stato-Regione, si rende necessario attuare una ricognizione tendente ad accertare lo stato delle liquidazioni degli enti, in un’ottica di razionalizzazione delle procedure”, anche “in ossequio a quanto osservato dalle Sezioni riunite della Corte dei Conti in sede di giudizio di parifica del rendiconto generale del 2018”. Nell’ultima requisitoria del pubblico ministero contabile, Pino Zingale, emerge però “apprezzamento sull’iniziativa dell’attuale Governo regionale che, nell’intento di sottoporre ad un controllo efficiente ed efficace tale composita realtà”, quella delle partecipate, “ha proceduto all’approvazione dello schema di norme di attuazione per la creazione della Sezione di controllo di questa Corte sugli enti regionali” e “ha ipotizzato nuove e più incisive funzioni per la Sezione che si intende istituire, anche attraverso la previsione di una quanto mai utile e necessaria funzione consultiva che possa prevenire, anziché reprimere, comportamenti non in linea con i principi di legalità, efficienza ed efficacia”. Insomma, la Regione ha promesso ai giudici contabili che potranno occuparsi loro, in prima persone, di enti e società partecipate. Per scovare furbizie e malcostumi. E’ già qualcosa.

Nel frattempo, bisognerebbe adottare gli strumenti di controllo che si hanno a disposizione: pochi. Alcune questioni, fra l’altro, risultano inconcepibili anche per gli addetti ai lavori: prendete l’Esa, l’Ente di sviluppo agricolo. E’ ormai arcinoto che all’inizio della legislatura, in uno slancio moralizzante, il presidente della Regione – definendolo “l’ultimo carrozzone della Prima repubblica” – annunciò la sua soppressione. Ma è altrettanto lampante che ci ha ripensato: dopo averci messo alla guida Giuseppe Catania, presidente dell’assemblea regionale di Diventerà Bellissima, l’Ente di sviluppo agricolo è tornato improvvisamente strategico. Eppure: manca un censimento dei suoi immobili, che permetta alla Regione di riconoscerne lo stato patrimoniale (assai ricco, si dice: comprende il palazzo di via Libertà, a Palermo); vanta un credito di 120 milioni nei confronti della Regione stessa, che non ha mai pagato per la cessione di cinque proprietà al suo Fondo immobiliare, nel 2007; ha tentato di trasformare in dirigenti dei semplici dipendenti (senza concorso); ha chiuso la biofabbrica di Ramacca, dove si producevano cocciniglie per l’agricoltura biologica. Un impianto strategico e innovativo che è stato completamente abbandonato. L’Esa, in cambio, riceve un contributo annuo di venti milioni.

Anche la situazione dell’Irvo (Istituto regionale del vino e dell’olio), è assai curiosa. Coi bilanci perennemente in rosso, la Regione sgancia poco più di 5 milioni l’anno per sostenerlo. Ma le particolarità portate a galla nel suo report dal parlamentare M5s, sono parecchie: la prima è che su 61 dipendenti, 18 sono dirigenti. Le spese per il personale dipendente ammontano a 4 milioni e mezzo e costituiscono il 74% delle spese correnti. Uno sproposito. Inoltre, nel 2019 sono stati erogati 200 mila euro di indennità di risultato senza che sia stato mai accertato il raggiungimento degli obiettivi fissati dal piano della performance. Nell’ultima Legge Finanziaria, infine, sono stati stanziati 2 milioni per ovviare al depauperamento del fondo previdenziale che nessuno, fra i deputati, riesce a spiegarsi fino in fondo. Tra gli istituti che beneficiano delle attenzioni del governo Musumeci, non poteva mancare quello ippico, che negli ultimi tre anni ha rimesso in piedi la tenuta di Ambelia grazie a copiosi interventi delle casse regionali.

Nell’ambito degli sprechi che coinvolgono i Consorzi, invece, vale la pena citare il Corfilac di Ragusa, sede di una caciotteria regionale (con dodici celle di stagionatura scavate nella roccia), che versa in stato d’abbandono da otto anni. Ce ne vollero quattro per arrivare alla sua inaugurazione: ma oggi è stato totalmente dimenticata e non si trovano i 500 mila euro per affrontare i lavori di riqualificazione. Mentre il Corissi rappresenta, forse, l’emblema del poltronismo più sfrenato: il Consiglio d’Amministrazione, infatti, è composto da sei membri, di fronte a due soli dipendenti (inquadrati come dirigenti di secondo e terzo livello). Gli amministratori, ha svelato Sunseri, si giustificano sostenendo che l’idea originaria, tradita dal corso degli eventi, fosse di creare dei vertici per poi incrementare il personale. Non è stato possibile. Il Consorzio di ricerca per lo sviluppo dei sistemi innovativi agroambientali è rimasto bloccato. E da oggi anche deriso.

Un ultimo appunto lo meritano i Consorzi di bonifica siciliani. Sono undici, alcune province (Caltanissetta e Catania) ne hanno due. Pesano sulla Regione per 53 milioni l’anno. E sono tutti – perennemente – in perdita. Alcuni lavoratori hanno stipendi arretrati di sei mesi, ma negli anni è aumentato il numero dei dirigenti, gravando sui costi per circa 400 mila euro. Sulla gestione economico-finanziaria pesano di centinaia di contenziosi aperti con i lavoratori. Nell’ultimo Accordo Stato-Regione, Roma sollecita una riforma. Che Musumeci, in un certo senso, ha promesso: si tratta di un disegno di legge che prevede “una gestione unitaria delle attività degli attuali Consorzi in capo ad un unico Consorzio di bonifica, articolato in quattro distretti” per razionalizzare in modo efficace ed efficiente le risorse strumentali, umane e finanziarie, “comportando altresì un miglioramento qualitativo della spesa”. L’obiettivo è anche “l’ammodernamento delle infrastrutture ormai vetuste”, così come la “manutenzione degli impianti elettromeccanici, della rete distributiva e della rete idraulica”. Gli attuali Consorzi verrebbero liquidati entro una decina d’anni. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che la riforma, sbandierata durante la scorsa campagna elettorale, all’Ars non si è ancora vista.