Ancora molto tempo dopo la celebre equazione di Einstein che vede massa ed energia come grandezze equivalenti, nella nostra esperienza quotidiana continuiamo a ritenerle ben distinte; e d’altra parte, allo stesso modo, continuiamo ad affermare che il sole sorge e tramonta, pur sapendo che in effetti è la terra a girargli intorno. Le più importanti scoperte scientifiche stentano a rivoluzionare il nostro modo di vedere, e noi, pur con la nostra avanzatissima tecnologia, restiamo “antichi” quasi quanto i nostri antenati medioevali.

In questa situazione retriva, manteniamo le categorie di sempre anche nel mondo politico: idealmente riconosciamo una sinistra e una destra, ignorando che queste collocazioni spaziali nacquero in Francia, poco prima della Rivoluzione, quando Luigi XVI convocò gli Stati Generali, che nulla avevano a che vedere con quelli convocati dal Movimento Cinque stelle (e rimasti formalmente aperti per diversi anni), né con quelli convocati dal Governo Conte nel giugno del 2020 e neppure con quelli della sinistra, svoltisi presso i cantieri culturali di Palermo nei giorni scorsi in seguito a un appello di Repubblica.

Lungi dall’essere, come oggi, una consultazione allargata su un tema specifico, gli Stati Generali a cui mi riferivo, quelli francesi del 1789, dal retaggio invece rivoluzionario, erano un’assemblea con il compito di rappresentare le tre classi sociali: clero, nobiltà e Terzo Stato. In seguito alla proclamazione dell’Assemblea Nazionale, nell’emiciclo i nobili e i membri del clero si disposero a destra, i radicali, più rivoluzionari, a sinistra e al centro si collocò la cosiddetta “palude” (“le marais”), che in qualche modo manteneva l’equilibrio evitando che prevalesse la destra. Dalla Francia quella suddivisione finì per dilagare nei parlamenti di tutta l’Europa, e si mantiene tuttora: a sinistra progressisti e rivoluzionari, a destra conservatori, e al centro coloro che dovrebbero mediare le posizioni evitando che la destra si spinga troppo oltre.

Come possiamo leggere, oggi, la rigidità di queste collocazioni spaziali che sono rimaste tale e quali cristallizzandosi senza più alcuna velleità “rivoluzionaria”, questa sorta di tripartizione che poi si frammenta in innumerevoli schegge, questa visione semplicistica, quasi da terrapiattismo istituzionale?
E in che modo l’emiciclo – la sua forma, la sua disposizione spaziale, il suo modo di contenere i deputati – influenza il pensiero democratico?

E ancora, ci chiediamo: cosa c’è oltre l’emiciclo, che è già una sezione di uno spazio circolare, forse il timore di nuove possibilità, temute come fossero novelle colonne d’Ercole?

E perché una sezione soltanto e non il cerchio intero, ad evocare la “circolazione” del pensiero, la dialettica, lo scambio, l’incontro?

“L’architettura degli spazi di congregazione politica non è solo l’espressione astratta di una cultura politica, ma modella anche questa cultura”, scrive Esteban Ordónez Chillarón: l’emiciclo conferma infatti la centralità e la preminenza del presidente. “È noto”, d’altra parte, come scrive Pietro Grasso, “che l’Aula del Senato […] ha seguito lo spostamento delle capitali e le trasformazioni costituzionali dell’Italia unita. A Torino (dal 1848) l’Aula era rettangolare, a Firenze (dal 1865) ellittica, a Roma (dal 1871) semicircolare. […] La forma dell’Aula si sviluppò in parallelo all’evoluzione delle regole e delle consuetudini delle assemblee legislative”.

Senza andare lontano, già a scuola la disposizione dei banchi, ancora quasi sempre allineati e rivolti verso la cattedra-pulpito da cui gli insegnanti tengono le loro lezioni, piuttosto che sostituiti da tavolinetti che consentirebbero di spostarsi facilmente, per cui gli insegnanti potrebbero sedersi tra gli allievi e insieme a loro, crea una sofferenza enorme alle dinamiche di apprendimento e a quelle interrelazionali. Quando distribuiti nello spazio della classe, gli allievi lo sentono proprio, lo abitano, lo vivono: perché dovrebbe essere diverso in un’aula di parlamento dove ognuno siede, invece, nel posto che gli è assegnato, ben sistemato in fila con altri colleghi deputati davanti e dietro, tutti del proprio “partito” o comunque del proprio settore politico, ben divisi e separati dagli altri come già la parola stessa “partito” evoca ma tutti comunque orientati verso il banco del Presidente?

È forse da questo confuso sentire che è nato il Movimento Cinque stelle, “libera associazione di cittadini” e non partito, “né di destra né di sinistra”: solo che, con simili intendimenti di matrice più filosofica che politica, avrebbe avuto necessità di grande umiltà e non di arroganza, di grande competenza, lungimiranza e saggezza e non di improvvisazione, se pure sostenuta certamente da buona fede. Comincia forse, tuttavia, a baluginare nelle coscienze un misconosciuto bisogno di nuovo, di una realtà altra, del riconoscimento di un pensiero che per andare oltre la dualità la deve prima assolutamente riconoscere, un pensiero che trasformi la contrapposizione sterile in trascendimento e sintesi degli opposti – e proprio per questo ciò che emerge in questo momento è l’esatto contrario, e proprio per questo si confondono sempre più le ideologie, le parole, il senso stesso delle cose, si urlano incongruenze credendo di enunciare verità.

Accade così che, per esempio, gli assertori più estremi dell’“ordine” inneggino nelle piazze alla “Libertà”, ribellandosi a quella che – proprio loro – definiscono come una “dittatura sanitaria” e paragonando la loro “persecuzione” all’olocausto (sic!), mentre il Green Pass, diventato obbligatorio, viene interpretato come una gravissima limitazione della libertà individuale. La libertà si trasforma in una bandiera o anzi viene esibita come uno scudetto, una tessera, un segno di appartenenza e non un valore universale.

Il sole continua a sorgere e tramontare, mentre noi continuiamo le nostre sterili polemiche piene di odio e non ci accorgiamo di frammentare ogni cosa, di esserci separati non solo dall’ambiente ma persino da noi stessi, di chiudere gli occhi di fronte a nuovi orizzonti, di non voler oltrepassare nessuna frontiera – non ci accorgiamo che siamo tutti veramente molto indietro e nello stesso tempo molto avanti, in una scissione drammatica per cui non esistono collegamenti possibili.