L’Ape Maio. L’insostenibile leggerezza della giovane ape protagonista dell’infanzia televisiva dei nostri figli che si fa soggetto politico. Con l’operoso insetto che vola nel simbolo accanto al nome del nuovo partito: Impegno civico. E sopra il cognome del ministro degli Esteri, Di Maio, a cui è riservato il corpo tipografico più grande.

Vola, vola verso l’alto, l’ape. Le alucce a formare un cuore, verso la meta contenuta in un logo rotondo più piccolo. Quasi una miniatura. Manco a farlo apposta in gergo viene chiamato “pulce”, proprio come l’insetto. La “pulce” è l’inserimento nel simbolo che verrà stampato sulla scheda elettorale dell’emblema di un partito già esistente. Un partito già esentato per legge dalla raccolta delle firme.  Che, come è noto, assieme alle molte incombenze burocratiche, deve essere attuata almeno un mese prima delle elezioni, quest’anno fissate il 25 settembre. Quindi nel bel mezzo di agosto. Un problema per soggetti politici nuovi e talvolta molto piccoli.

La pulce dell’Ape Maio è il Centro Democratico, la formazione fondata dieci anni fa da Bruno Tabacci, nocchiero elettorale di lungo corso. Uno che ha studiato all’università democristiana della prima Repubblica. Non a caso la sigla CD è speculare a DC, il fulcro della vita politica italiana dal dopoguerra al 1993, quando il processo iniziato con Mani pulite ne decretò la fine invero ingloriosa.

Vola, vola, vola, dunque, l’Ape Maio, giallo verde, giallo rosso, tanto gaio. Chissà quanto il ministro degli Esteri del governo dei migliori (ma anche di quello precedente, Conte bis) abbia puntato sull’assonanza con uno dei cartoon più amati dai bambini di mezzo mondo. Un cartone animato che di certo anche lui, classe 1986, avrà visto da piccolo.

Ma non si può pensare di ridurre a un fumetto la vicenda politica di Luigi Di Maio da Pomigliano d’Arco, comune a vocazione industriale della cintura di Napoli. Ai posteri l’ardua sentenza. Se fu o sarà vera gloria. Hic et nunc, in un paese senza memoria come l’Italia, basta e avanza per presentare il conto.

Da venditore di bibite allo Stadio San Paolo di Napoli, a tecnico informatico, a webmaster, il contrappasso per uno che rivendica di avere lavorato sempre e che oggi dice di non valere uno, è che le sue attività, le sue dichiarazioni, il suo agire, coincidono con gli anni della riproducibilità digitale. Hanno attraversato la linea d’ombra degli archivi e delle teche, implacabili testimonianze di ciò che è stato.

Possiamo dunque venire a capo della favola bella del bel giovanotto che incarna “The Italian Dream”. Cioè, come diventare qualcuno partendo da zero.

Di Maio inizia presentandosi nel 2010 alle comunali del suo paese. Prende 59 voti e non viene eletto. Nel 2013, però, imbrocca le “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle di Grillo in vista delle elezioni politiche. Raccoglie 189 preferenze online. Viene candidato, eletto, e diventa il più giovane vicepresidente della Camera della storia della Repubblica e uno dei volti più noti del Movimento, la casa madre, appunto, dell’uno vale uno, del non più di due mandati in Parlamento, del vincolo di mandato invocato dallo stesso Giggino per contrastare, anche attraverso risarcimenti, cambi di casacca elettorale in corso d’opera.

Casa madre che “o’ministro” abbandona il 21 giugno scorso. Portandosi dietro più di sessanta tra deputati e senatori confluiti in un gruppo parlamentare creato apposta per l’occasione: Insieme per il futuro. Una scissione da fare impallidire quella di Saragat ai tempi di Palazzo Barberini, nonostante le malelingue abbiano subito malignato sul futuro in questione. Il futuro dei congiunti o quello dei congiuntivi? Entrambi grani dolorosi nella corona di Luigi Di Maio.

Sui “Pomigliano boys”, il cerchio vesuviano di amici, conoscenti e compagni di scuola di Giggino assunti dallo Stato e assurti a prestigiosi e assai pagati incarichi non mancano le testimonianze. Nella tradizione sintetizzata da Longanesi: “In Italia tutti tengono famiglia”.

Sull’uso della lingua italiana e sulla cultura generale del nostro ministro degli Esteri, basta lui. Ha creato da solo, da autentico self made man, uno zibaldone di spessore.

Bisogna capirlo. Uno dedito per quindici mesi di fila a sbrigare allo stesso tempo gli affari che competono al vicepresidente del Consiglio, quelli di pertinenza del ministro dello Sviluppo economico e pure quelli che riguardano il ministro del Lavoro e delle Politiche sociale, dove lo trova il tempo per applicarsi alla geografia e alla storia che ormai manco a scuola si studiano più?  Beirut, dove si trova? Area Mena, ok. Ma in Africa o Medio Oriente?

E Pinochet. Chi era costui? Instaurò un regime dittatoriale in Sud America. Che è un continente vasto. Almeno dal Venezuela al Cile. E anche oltre. Perché sottilizzare?

Il meglio di sé lo ha dato agli Esteri nell’esercizio delle sue funzioni. O, forse, finzioni. Era il novembre 2018 quando, neo ministro degli Affari esteri, Luigi di Maio, da sempre innamorato della via della Seta, si recò in Cina in visita ufficiale e chiamò “Ping” il presidente cinese Jinping. Forse un’affettuosa abbreviazione del nome come si usa nei bar di Roma.

Poi, vabbè essere atlantista, europeista, allineato al suo presidente del Consiglio preferito che è Draghi e non il pentastellato Conte, di cui è stato vice. Ma andare in tv a dire che Putin è “peggio di un animale”, non è esattamente quello che ci si aspetta dal capo di una diplomazia occidentale. Se poi aggiunge “atroce” invece di “feroce”, pure i russi se ne accorgono e dicono agli italiani che il ruolo del ministro degli Esteri non è quello di andare in giro per il mondo ad assaggiare cibi esotici ai pranzi di gala.

Loro poi hanno Sergej Lavrov, il numero due del Cremlino, che è ministro degli Esteri ma anche diplomatico di carriera. Verrebbe da dire con Sciascia: “A ciascuno il suo”. Ma oggi è un azzardo. Si finisce dritti dritti nelle fila dei putiniani d’Italia.

Il fatto è che il giovane e simpatico Di Maio ha presentato al severo Lavrov un piano di pace approntato dalla Farnesina. Sembra che in Russia si siano messi a ridere. E ce lo hanno fatto sapere. Specificando: “per il livello di comprensione che gli autori di questa iniziativa hanno della situazione, per la loro conoscenza dell’argomento, per la storia di questa questione”.

Dopo aver definito il piano della Farnesina “non serio”, Lavrov ha aggiunto che “chi si augura la sconfitta della Russia non conosce la storia”. Ovviamente, nessuna correlazione con Di Maio. Anzi. Draghi durante la sua ultima conferenza stampa ha ribadito che “finora l’Italia ha avuto credibilità internazionale”.

Non abbiamo motivo di dubitarne. Di Maio è uomo d’onore. Come Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare. Se solo volesse e sapesse, potrebbe essere protagonista di un discorso sul modello di quello pronunciato da Marco Antonio in memoria di Cesare.

E’ uomo di lotta e di governo. Poco prima di diventare vicepresidente del Consiglio chiedeva l’impeachment del capo dello Stato Sergio Mattarella a cui ora dedica odi “social” nel giorno del genetliaco.  Poi, sempre nel 2018, affacciandosi dal balcone di Palazzo Chigi annunciava l’abolizione della povertà per decreto. Festante e inquietante. In quel che resta della memoria collettiva del paese, i balconi dei palazzi del potere a Roma sono forieri di grandi sfortune per gli italiani. Infatti la povertà è aumentata a dismisura. Ma Giggino non poteva sapere allora che si era alla vigilia della grande crisi causata dalla pandemia e, poi, dalla guerra d’Ucraina e da un’infinita serie di emergenze che si preparano sotto i nostri occhi, dal vaiolo delle scimmie all’emergenza climatica. Emergenze da lui sposate in pieno.

Nel tenere a battesimo il nuovissimo partito Impegno civico all’inizio di agosto al Foro Italico a Roma, in un tripudio di Ledwalls e musica a tutto volume, brani come “We can be heroes, just for one day” di David Bowie, Luigi Di Maio ha specificato che la piccola ape svolazzante nel simbolo è l’emblema “della nostra coscienza ecologica, del nostro mettere al centro la transizione ecologica fondamentale nel Pnrr. Non risolveremo il problema quest’anno, ma dobbiamo portarlo all’attenzione dei prossimi tavoli internazionali”.

Nel frattempo, avendo scisso il Movimento 5 stelle, avendo creato un gruppo affollato di parlamentari alla scadenza del secondo mandato come lui, ma sarà un caso, avendo fondato un partito, Di Maio rivendica il diritto di tribuna e si candida assieme al Pd. Uno svolazzo non da poco per uno che nell’estate del 2019 dichiarava: “Mai col Pd, mai col partito di Bibbiano”, con riferimento al comune della Bassa Emiliana al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni” su affidi illeciti di bambini, rituali satanici e piacevolezze del genere.

Di Maio è uno che dice e si contraddice. D’altra parte solo i cretini non cambiano idea.

Lui che adesso è europeista ad oltranza voleva uscire dall’euro per tornare alla lira. O parlava di “taxi del mare” con riferimento alle Ong internazionali che operano nel Mediterraneo con i migranti.

Capita che talvolta si contraddica anche con la sintassi. Diventa ancora più simpatico, più al passo coi tempi, il sogno italiano di arrivare nonostante tutto.

Ecco, più che l’Ape Maio il nostro ministro degli Esteri ricorda un calabrone. Il mito del calabrone che vola nonostante tutto. Nonostante le leggi dell’aerodinamica e le equazioni della resistenza dell’aria sul volo degli insetti. La realtà dei fatti che contraddice le teorie elaborate dagli uomini. E ronza il calabrone. Facendo molto più rumore di un’ape.