Chi sono i “sette scappati di casa”? (In realtà, stando ai numeri reali, se n’è perso qualcuno). Quegli accattoni della politica, per usare una sua definizione, da cui Musumeci s’è tenuto alla larga per “motivi di igiene”? Chi ricatta il presidente della Regione con questi “mezzucci”, cioè la richiesta di qualche posto di sottogoverno? Chi ha ordito questo atto di intimidazione nei suoi confronti? Nei dieci minuti d’ira riversati sui social, il governatore ha dato fondo al peggior glossario di sempre per etichettare alcuni compagni di ventura che nel 2017 avevano contribuito alla sua vittoria e che adesso, al termine di un’elezione controversa per stabilire i tre delegati siciliani che si esprimeranno sul presidente della Repubblica, diventano all’improvviso reietti e scarti della società. “Ricattatori”. Musumeci non fa nomi, ed è questa la parte peggiore. Non completa la lezioncina che dall’alto della sua statura (morale) avrebbe il dovere (morale) di tramutare in storia. Enunciando, ad uno ad uno, i favori, le raccomandazioni, le pressioni che si avviluppano alla sua esperienza tormentata di governo. Quanti ‘no’ ha detto Musumeci in quattro anni? E a chi? E, soprattutto, a cosa?

Nel segreto dell’urna – perché ieri, l’urna, non poteva non essere segreta – si è consumata la sconfitta più amara degli ultimi quattro anni. Un presidente che prende meno voti del delegato dell’opposizione non s’era mai visto nemmeno ai tempi di Crocetta. Ma peggio della debacle in aula c’è solo la diretta Facebook. Incontenibile, volgare. Che sfugge al controllo dei suoi “consiglieri”. Che, anziché fare chiarezza, aggrava i rapporti con gli (ex) alleati in maniera quasi irreparabile. Le prime saette al governatore, a tarda sera, arrivano da due dei parlamentari più vicini a Gianfranco Miccichè. Michele Mancuso si dice “sconcertato” dalle parole del presidente: “Forse è meglio che si dimetta per andare subito al voto. Non si risolve nulla azzerando – in parte – la giunta”. Daniela Ternullo, subentrata a Pippo Gennuso, anch’ella di Forza Italia, lo sfida: “Non mi sento una disertrice o peggio vile perché non ho espresso la preferenza per Musumeci. Non è notizia celata da mistero il mio esclusivo voto per il presidente Micciché. Ritengo le parole di Musumeci profondamente offensive. Per quanto mi riguarda, invito la Procura ad indagare sulle proposte irricevibili o intimidatorie che la sottoscritta avrebbe formulato al presidente della Regione”.

Anche Danilo Lo Giudice, parlamentare di Sicilia Vera, legatissimo al sindaco di Messina Cateno De Luca (di cui è stato successore all’Ars), si sfila dalla schiera dei traditori senz’anima: “Poiché non faccio parte della maggioranza, non credo che il presidente Musumeci annoverasse il sottoscritto tra coloro che potevano designarlo quale grande elettore per la Sicilia; tale scelta – ammette – non è determinata né da “questione di igiene” né da questioni che hanno a che fare con la logica del “chi c’è pi mia” perché il sottoscritto non ha mai chiesto nulla dei sottoboschi governativi, dove di certo risiedono figure ben vicine allo stesso presidente che oggi si scopre novello della politica”.

Il vittimismo di Musumeci, inoltre, è amplificato dal ricorso alla falsa morale. All’espediente di sempre – il voto segreto – per dimostrare la pavidità degli ‘scappati di casa’. L’immagine del presidente vittima di un’imboscata, rappresentata ai siciliani, è connessa, però, a un errore di fondo. A stabilire la modalità dell’elezione di ieri, infatti, non è il parlamento regionale, bensì l’articolo 83 della Costituzione italiana. L’elezione di tutti gli organi di garanzia (Capo dello Stato, giudici costituzionali, membri del CSM) avviene a scrutinio segreto. Questo principio si estende anche ai delegati regionali che parteciperanno all’elezione del Presidente della Repubblica. Ovunque, non solo in Sicilia. Anche Musumeci, dal 24 gennaio, sceglierà il Capo dello Stato in maniera segreta e nessuno gli chiederà – o potrà chiedergli – conto del suo voto.

Ma al de profundis di ieri in aula, che ai siciliani incazzati interessa il giusto, è seguita una mossa persino più azzardata: cioè azzerare la giunta, ritenuta la migliore di sempre, consegnandosi nelle mani dei partiti ripudiati a più riprese. Cosa spera di ottenere, adesso, Musumeci? Come spera di conservare i “fedelissimi” – su tutti, l’assessore all’Economia, Gaetano Armao – se saranno i gruppi politici (anche gli ex grillini avanzano pretese) a individuare una rosa di nomi da sottoporre all’attenzione del presidente? Il capo dell’esecutivo proverà a conservare per sé una quota di assessori, ma non tutti gli iscritti al partito del governatore, l’unico con diritto di cittadinanza a palazzo d’Orleans, potranno garantirsi una riconferma. Questo è un nel guaio. Porterà Musumeci sul terreno infimo del confronto. Del compromesso al ribasso. Dell’utilizzo dei “mezzucci” per accaparrarsi una poltrona in più. Metodi che lui detesta.

Intanto – sarà sfuggito nel marasma di ieri – c’è un esercizio provvisorio da approvare: fino a martedì prossimo, quando si tornerà in aula (magari con un nuovo assessore al Bilancio) la Sicilia rimarrà con la spesa bloccata. Paralizzata. Ma vuoi mettere questioni di lana caprina, come la stabilità finanziaria di una Regione, con una bella crisi di governo? Il confronto non regge…