Le cinque sorelle di Emma Dante hanno scosso Venezia, agitato le acque del Lido, un crepitio di sette minuti di applausi nella Sala Grande del Palazzo del Cinema. Le Macaluso – con il loro misto di dolore e rancore, ma anche con la loro distonica sorellanza, con quelle ambizioni alte e realmente irraggiungibili (sembrano quasi Palermo, guarda un po’), con quel filo sottile ma forte come un cavo d’acciaio che lega i vivi e i morti affinché i primi si ricordino sempre dei secondi, con le loro stanze e i loro oggetti che sono dolci feticci di una memoria amara, hanno fatto parlare di sé. Bene, con qualche distinguo, ovviamente, ma tanto da diventare, come era facile prevedere, un “caso”.

Quattro stelle su cinque gli ha dato Emiliano Morreale che è ormai, su la Repubblica, il babau della critica cinematografica italiana (per quanto la critica sia ormai, in tempi di social, categoria accreditabile tra quelle cui si dà ancora lettura o ascolto), insomma il cattivissimo, specie con gli autoctoni, quello di cui certi registi conserverebbero volentieri il pupazzetto woodoo con gli spilli infilzati dentro un cassetto e che certe frange di cinefili tifosi aspetterebbero magari sotto casa se non fosse politically uncorrect. Addirittura: «La prima mezz’ora è una delle cose più belle viste al festival – scrive Morreale –: una trasferta delle ragazze, tra bambine e poco più che adolescenti, all’altro estremo della città, in un lido di Mondello». E nel finale: «Se “Le sorelle Macaluso” spicca tra i molti film visti a Venezia è perché, tra tante immagini inerti, ha un che di vivo, di selvaggio, che fa respirare».

Emma Dante divide anche, come sempre. E se il buon Mereghetti sul Corriere qualche dubbio lo sfodera dando comunque al film più che la sufficienza (6,5) c’è chi ne fa un oggetto di fascinazione più estetica che etica, come Serena Nannelli de Il Giornale: «Le sorelle Macaluso appare un film carico in maniera scomposta, un assemblaggio di particolari, evidentemente autobiografici, che ha un significato maggiore per la regista che per il pubblico. Ma sono talmente tanti i dettagli legati all’italianità domestica d’antan, che si viene allacciati in qualche modo».

Per il resto è quasi un peana, anche chi vuole scovare qualche sottolineatura rossa, qualche appunto tecnico, qualche capello spaccato in quattro sul linguaggio filmico, ha vita dura perché la Dante non solo ce la fa con le sue inquadrature sghembe come le vite che racconta ma soprattutto è indubbio che il messaggio arrivi, forte e chiaro. Fior da fiore. «La cura del dettaglio, la gestualità comune, il soffermarsi su piccole azioni sono gli elementi di una regia che permette allo spettatore di aprire un cratere di emozioni» (Federica De Masi, Cinematographe). «Film senza tempo, che attinge dalla miglior tradizione del teatro e del cinema italiano, corale ma mantiene una sua peculiare energia anche nei passaggi più dolenti» (Giuseppe Pastore, Sky Tg24). «Oltre ad essere uno dei drammaturghi italiani contemporanei più capaci, sensibili, completi, Dante sembra avere addosso anche un po’ di demone cinematografico. Il suo film non è solo avviluppato come l’edera al senso ultimo del tragico, ma è anche un tentativo, magari con smagliature, di mettere insieme tutte le potenzialità della forza del cinema» (Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano).

In un film che raffigura un interno familiare privo di presenze genitoriali, lacerato, offeso ma allo stesso tempo forte, granitico perfino nei suoi egoismi e nella sua spietatezza, anche la stampa cattolica trova afflati di umanità, barbagli di speranza: «Emma Dante è una regista teatrale eclettica e grintosa, che sa come abitare un linguaggio diverso come quello del cinema, seppur prossimo al teatro. Rappresenta questa storia fatta di sentimenti brucianti e ricordi agrodolci in maniera vibrante e poetica, coniugando gli scontri verbali tra le ragazze con raccordi densi di tenerezza: gli sguardi contemplativi nella casa vuota, la presenza quasi onirica delle colombe o il dolce riflesso di volti dal passato. Un film che scivola dalla luce al buio, dagli anni spensierati di un’estate tra ragazze alle zavorre dell’età adulta (…) Un film assolutamente potente, marcato da malinconia», scrive la Sir, l’agenzia di stampa religiosa legata alla Conferenza episcopale.

«Nel mondo meraviglioso delle femmine, quelle che si mettono il rossetto e danzano sulle punte, quelle che si innamorano dei libri come se fossero fidanzati, quelle che cucinano il “pesce finto” e quelle che vanno matte per i pasticcini, può succedere che la morte bussi alla porta con tutta la sua malvagia violenza, senza riuscire, in nessun caso, a soffocare la vita. Dal palcoscenico al set, Emma Dante racconta le sue sorelle geniali in un film potente», chiosa Fulvia Caprara su La Stampa.