Non si può certo dire che Nello Musumeci e Ruggero Razza abbiano accettato con fair play il verdetto del campo. Il primo ha gridato al complotto, il secondo – in maniera più coscienziosa – ha contestato l’approccio “scientifico” rispetto alle decisioni assunte dal Ministro della Salute, Roberto Speranza. La Sicilia, da oggi, è zona arancione. A farne le spese saranno soprattutto i ristoratori, già colpiti dal Dpcm del 24 ottobre, che imponeva loro di chiudere alle 18. Per un paio di settimane, che potrebbero diventare tre (a meno di un miglioramento inatteso), gli esercizi commerciali saranno chiusi al pubblico. E per spostarsi da un comune all’altro, o fuori dalla regione, bisognerà munirsi di un’autocertificazione e di un motivo più che valido, pena una sanzione.

Sulla scelta del governo nazionale e del Cts, ispirata dal monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità, si è abbattuta la furia di Musumeci e di altri governatori che, peggio di Nello, si sono visti relegati in “zona rossa”. Il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, ha detto che i numeri sull’andamento della pandemia, utilizzati da Roma per la suddivisione nelle tre aree di rischio, erano “vecchi di almeno dieci giorni” e non considerano “il netto miglioramento dell’Rt” nella sua regione. Mentre il leghista Fontana, non pago della prima ondata, sostiene che le decisioni del governo romano sono “uno schiaffo in faccia a tutti i lombardi”. Musumeci, invece, dice di qualcosa di diverso. Definisce la decisione “al di fuori di ogni legittima spiegazione scientifica”. “Perché questa spasmodica voglia di colpire anzitempo centinaia di migliaia di imprese siciliane?”. E ancora, intervenendo a Rai News 24: “Tutte le zone penalizzate sono regioni che appartengono al centrodestra… Non ho la certezza, ma il sospetto sì”. La tregua con Palazzo Chigi è durata appena una settimana: il tempo di ritrattare sugli intenti bellicosi del nuovo Disegno di legge, con cui il governo della Regione avrebbe voluto chiedere una deroga sull’orario di chiusura di bar e ristoranti (a proposito: all’Ars, nella nuova versione, non l’hanno ancora calendarizzato).

L’ultimo episodio conferma, però il rapporto controverso fra Stato e Regione, che nell’arco di questa pandemia è venuto a galla nelle forme più svariate. Dalla richiesta di sigillare con l’esercito lo Stretto di Messina, all’indomani del massiccio controesodo determinato dall’imposizione del lockdown; passando per la pretesa, rispedita al mittente, di attuare l’articolo 31 dello Statuto siciliano, che prevede la possibilità per il governatore di mettersi al comando dell’esercito in casi di emergenza (“Per Roma è una possibilità morta e sepolta”, ha poi ammesso Musumeci). La Regione è sempre stata all’opposizione del governo giallorosso, appare lampante. Sarà per una visione inconciliabile sulla gestione della crisi (ci sta, ma nessuno può fare scuola di fronte a una pandemia), sarà – ma non vogliamo crederci – per una distanza politica mai colmata. In questi rapporti bilaterali, però, nulla è andato per il verso giusto. Nemmeno a Lampedusa, dove il presidente siciliano, allo scopo di fermare l’invasione dei clandestini, ha fatto ricorso a un’ordinanza che il Tar prima ha sospeso (a causa dell’impugnativa del governo) e, poi, ha giudicato illegittima. Prevedeva la chiusura dei porti, con il divieto di obbligo e sosta nei confini siciliani. Roba da Trump.

Sembrava, lo ripetiamo, che l’evolversi della pandemia avesse ricondotto Musumeci e Conte dalla stessa parte della barricata (“Nessuno scontro con lo Stato, chi lo dice è in malafede”, aveva giurato il colonnello Nello nei giorni scorsi), ma i rapporti nelle ultime ore sono precipitati. Musumeci è arrivato a disconoscere le decisioni assunte dal Ministro Speranza, “senza alcuna preventiva intesa con la Regione”. Se così fosse – anche se il diretto interessato per il momento lo esclude – non gli resta che una strada: il Tar. L’articolo 2 del Dpcm del 3 novembre, dal titolo “Ulteriori misure di contenimento del contagio su alcune aree del territorio nazionale caratterizzate da u no scenario di elevata gravità e da un livello di rischio alto”, prevede al comma 1 che “allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19, con ordinanza del Ministro della salute, adottata sentiti i Presidenti delle Regioni interessate (…) sono individuate le Regioni che si collocano in uno ‘scenario di tipo 3’ e con un livello di rischio ‘alto’”.

E, al comma 2, si ribadisce che “con ordinanza del Ministro della Salute adottata ai sensi del comma 1, d’intesa con il presidente della Regione interessata, può essere prevista, in relazione a specifiche parti del territorio regionale (…) l’esenzione dell’applicazione delle misure”. Insomma, secondo la legge dovrebbe avvenire tutto “d’intesa”. E non – come ha spiegato Musumeci a caldo – con la volontà di escludere i governatori dai processi decisionali. Altrimenti viene meno il coinvolgimento dei territori, su cui si basa il decreto stesso.

La sensazione è che il complotto politico c’entri poco. Secondo Davide Faraone, presidente dei senatori di Italia Viva, è del tutto illogico ipotizzarlo: “Quale mente perversa può solo pensare minimamente che il ministero della Salute, il Consiglio Superiore di Sanità, il Cts, si siano riuniti per stabilire il colore delle aree in cui è stato diviso il paese in virtù del colore politico delle regioni? La verità – è la replica di Faraone ai “complottisti” – è che quegli indicatori, quella pagella, certificano oltre al concentrarsi a volte casuale dei contagiati, ritardi storici di alcune regioni e, piaccia o non piaccia, chi ha lavorato bene durante l’estate e chi ha solo pensato a fare chiacchiere e campagna elettorale”. In fondo al fiume dei ragionamenti di questi giorni, mai del tutto definitivi, sorge un altro sospetto: che Roma non nutra più alcuna fiducia nei rappresentanti istituzionali di questa Regione. Destra e sinistra non c’entrano.

Autorevoli esponenti del centrodestra siciliano, a microfoni spenti, fanno notare che ci troviamo di fronte a una “incapacità politica” di gestire i processi e di rapportarsi con il governo nazionale. Una forma di “debolezza”, di scarso peso istituzionale, che si è acuita nei mesi e che adesso, al momento delle decisioni importanti, rischia di avere una ricaduta inesorabile sulle forze produttive ed economiche di questa terra. Che fin qui – vale sempre la pena ricordarlo – non ha goduto di un solo euro di sostegno da parte di Palazzo d’Orleans (i cui Avvisi sono stati pubblicati da poco). Ma solo di qualche ristoro nazionale – un bonus qui, un bonus là – con tempistiche assai rivedibili.

Le cose, a questo punto, sono due: o la Sicilia è così sfigata da ricevere trattamenti disumani e indegni alla prima occasione utile (in questo caso, prevarrebbe davvero la malafede); o, al contrario, la potenza dello scaricabarile ha assuefatto a tal punto chi ci governa, da far passare in secondo piano le responsabilità vere o presunte che a Palermo nessuno ha voglia di assumersi. Nelle prossime settimane di “semi” lockdown, anziché usare social e studi televisivi come sfogatoio h24, sarebbe il caso di riflettere e, magari, rimboccarsi le maniche. Attivare i posti in Terapia intensiva, evitando allo stesso tempo il collasso degli ospedali e delle cure extra Covid, sarebbe un modo per dimostrare aver fatto il possibile. O quanto meno, di aver fatto qualcosa.