Da “giù le mani da mio figlio” a mettete “le mani addosso a mio padre”. E insomma linciateli e prendeteli. Il primo a scatenare l’inseguimento fu Matteo Renzi che per allontanare il peso del cognome ebbe a dichiarare: «Se mio padre dovesse essere colpevole, voglio per lui una pena doppia». Anche Alessandro Di Battista, “contumace” in Sudamerica, ha dovuto replicare alle mattane del padre Vittorio, uno che vuole bruciare il Quirinale come fosse la Bastiglia: «È il fascista più liberale che conosca». Era un modo ambiguo per prendere le distanze.

Oggi, pure Luigi Di Maio ha dovuto fare i conti con il padre, imprenditore edile che si è scoperto avrebbe condonato parte della casa e che, secondo Le Iene, avrebbe lasciato lavorare in nero un suo operaio, senza le protezioni assicurative e, dopo un infortunio, provveduto a licenziare. Sorpreso della scoperta, Di Maio ha dichiarato che da tempo «non parla con il padre», che ha avuto con lui momenti difficili e che tra i due ci sarebbe stato silenzio. Di sicuro, il padre ha pensato al suo futuro. Prima che Di Maio intraprendesse la carriera politica lo ha fatto socio della sua piccola azienda.

Di padri rovinati per provare a sistemare i figli, l’Italia è piena, ma di figli che per provare a rimanere a galla gettano a fondo i padri, finora non se ne erano visti. Anche questo dobbiamo al governo del cambiamento. Attenzione, non è la semplice “uccisione del padre” che in antropologia sappiamo essere un rito che permette la successione nelle piccole comunità. Qui si sta assemblando una nuova forma di democrazia e si capisce perché questo governo se ne possa infischiare dei moniti dell’Europa. Non occorre pensare alle prossime generazioni, meglio non essere più padri. È il governo della sterilità.