Spettacolo di concetto e di sostanza, questa “Tempesta” scespiriana pensata e diretta da Roberto Andò (che ha concluso le sue repliche al Biondo – sotto l’egida dello Stabile palermitano che l’ha prodotta – verrà ripresa a maggio al Piccolo di Milano e la prossima stagione per una lunga tournée).

Di concetto perché è comunque uno spettacolo politico in senso alto: stavolta, più che il perdono, più che il senso della riconciliazione tra l’usurpato e gli usurpatori, più che gli antagonismi acquietati tra le forze conflittuali del Potere, dicono molto più i libri sparsi per la scena, danno il segno, attualissimo, del bene da salvaguardare su tutti, la conoscenza, la sapienza che dovrebbero governare sulle nostre idee e sulle nostre scelte, libri sparsi un po’ ovunque, dal proscenio al fondale, chiusi o aperti, libelli e tomi pesantissimi, livres de chevet, da studio, da biblioteca. E se da un lato ci sono bacchette magiche a guisa di bastoni su cui appoggiare passi stanchi e compiere prodigi, dall’altro ci sono spade sguainate ormai con  disarmata tracotanza, con patetica retorica.

Di sostanza perché c’è il teatro con la sua multiforme magia: l’isola dove approdano gli usurpatori naufraghi è la casa di Prospero l’usurpato, il luogo dell’esilio imposto, da un lato il letto ottocentesco in ferro battuto del sovrano spodestato, l’angolo di lettura dall’altro, suppellettili di buon gusto borghese, un giaciglio ospedaliero di contenzione per Calibano, recalcitrante mostro in parte domo, una cucina anni Cinquanta in fòrmica per il duo comico di Trinculo e Stefano, pochi arredi elisabettiani che calano dall’alto per i nuovi tiranni, sullo sfondo l’arsenale delle apparizioni gestito da Ariel tra luci e velatini e, a simbolo della tempesta trascorsa, il palcoscenico-acquitrino (due dita d’acqua sulle quali gli attori recitano per due ore e mezza) svelato dal bianco sipario che, alzandosi, gronda residui temporaleschi.

Se il Prospero di Renato Carpentieri si piega – più che sulla nostalgia di un passato glorioso o sul triste far di conto della senescenza – sull’ineluttabilità del sentimento del tramonto, con un disincanto a volte consapevole e altre umbratile, l’idea vincente è quella di fare di Ariel, lo spirito al servizio di Prospero, un maggiordomo con poteri magici, una sorta di dottor Hinkfuss, un presentatore da kabarett tedesco e di Calibano un alieno capriccioso come un bambino cui è stato tolto un giocattolo (in verità è un usurpato anch’esso nell’isola dove è nato), con una voglia di rivalsa quasi infantile ma timoroso al tempo stesso di essere ancora punito se disobbediente. E rispettivamente nei due ruoli, Filippo Luna e Vincenzo Pirrotta sono straordinariamente bravi.

Su corde più consuete funziona anche il resto del cast (Giulia Andò, Paolo Briguglia, Fabrizio Falco, Paride Benassai, Gaetano Bruno). La scena (tanto bella quanto… umida) di Gianni Carluccio è in sintonia perfetta con il disegno registico così come i costumi di Daniela Cernigliaro, qui ad una prova di grande maturità in estro e artigianato. E se qualche perplessità resta sul ritmo complessivo, che andrà calibrato in fase di ripresa, non ci sono dubbi – oggi – sulla necessità di un teatro che si manifesti così.