Di treni non ne passano più. Nemmeno il piano nazionale di ripresa e resilienza, che porterà nell’Isola 20 miliardi in sei anni (almeno sulla carta) riuscirà a ricucire il divario con il resto del Paese. Il gap con le regioni del Nord sembra un rebus irrisolvibile; una specie di leggenda metropolitana; l’alibi perfetto per chi assume la guida di questa macchina scassata che è la Regione siciliana. “Non c’è riuscito nessuno, perché dovremmo farlo noi?”. E così basta l’esercizio della buona volontà, e i tavoli aperti fra un Ministero e l’altro, a giustificare il buon operato dei politici. Peccato che l’ultimo rapporto della Svimez evidenzi la realtà drammatica dell’economia siciliana. E l’assoluta perdita di competitività che niente e nessuno – manco i soldi dell’Europa – riusciranno a tamponare.

Bastano due dati. Il primo: dal 2001 al 2020 la Sicilia ha perso venti punti di Pil. Un numero su cui pesa l’ultimo anno e mezzo di pandemia, che comunque ha avuto un impatto meno devastante che nelle regioni del Nord. A fine 2021 è atteso un rimbalzo del 6% (così si esprime la nota di aggiornamento al Defr, il documento di economia e finanza regionale): speriamo. Ma il secondo dato è persino più allarmante: rispetto a vent’anni fa, il divario col Settentrione d’Italia ha raggiunto i 20 punti percentuali. La Svimez conclude che il Pnrr da solo non ce la può fare a colmare questi gap. Secondo l’associazione che monitora le condizioni del Mezzogiorno, non basta destinare il 40% dei fondi al Sud, ma occorre che il Piano sia integrato con i Fondi Ue e con le Politiche di Coesione, assieme ad una ripartenza del mercato del lavoro e degli investimenti privati affinché la crescita possa essere sostenuta nel tempo dall’incremento dei consumi.

Nell’Isola, però, lo sviluppo produttivo è una chimera. Basterebbe citare gli oltre 750 mila percettori del Reddito di cittadinanza, una platea sempre più numerosa, per testimoniarlo. Ma anche le scelte politiche adottate nell’ultimo ventennio, comprese quelle del governo attuale, risultano inadeguate al percorso di crescita auspicato. La teoria della lagna – per la mancata attuazione dello Statuto – è quella che tiene in piedi l’assessore Armao nei rapporti con Roma. Il tentativo (dovuto) di scucire nuove risorse a “Roma ladrona” è limitante nel tempo e nella sostanza. Il ricorso al riconoscimento dell’insularità come panacea di tutti i mali, non risolverà i problemi.

Ma in questa terra anche gli investimenti dei privati sono tenuti in ostaggio dalla burocrazia. Nell’ultimo report di palazzo d’Orleans, risultano 1.208 pratiche ferme presso gli uffici della Pubblica amministrazione (per circa 2 miliardi d’investimenti bloccati). E’ un modo per far capire allo Stato che servono nuove assunzioni hic et nunc, senza eccessive perdite di tempo. Ma alla voce ‘riqualificazione della spesa’, o ‘riduzione degli sprechi’, la Regione continua ad essere assenti. Come il cane che si morde la coda, né più né meno. E anche il tema della certificazione della spesa europea, divenuto un vanto del governo Musumeci, dovrebbe essere rapportato alla qualità della spesa stessa. E non soltanto una medaglia da appuntarsi al petto.

Un altro grosso handicap in vista del riparto dei soldi del Pnrr (detto che Roma, ad esempio, ha già riconosciuto alla Sicilia 111 milioni per l’avviamento delle Zes: le zone economiche speciali), è rappresentato dalle incompiute. Un’attenta inchiesta di Repubblica, ieri, ha svelato che alcune opere pubbliche, costate fior di quattrini, siano tuttora incomplete. Questo non depone a favore della Sicilia. Né è tutto demerito della Regione. Spesso è la carenza di risorse (umane ed economiche) a far deragliare i progetti. Come nel caso – esemplare – dei 22 milioni spesi per trasformare 7 km della Circumetnea, dalle parti di Castiglione di Sicilia, in pista ciclabile. Per vedere il percorso completo servono ancora un paio di milioncini. Ma nel frattempo le parti completate si sono già deteriorate. E la procura vuole vederci chiaro. In totale sono 133 le incompiute. Per 337 milioni già “bruciati”. Uno spreco inaccettabile.

Questo, però, è solo un volto della medaglia. Anche sul piano del lavoro la Sicilia è al palo. Come spiega, alla luce del rapporto Svimez, il presidente dei Consulenti del Lavoro di Palermo Antonino Alessi. “I Centri per l’impiego, che mantengono il 98% della competenza sul mercato del lavoro dell’Isola, sono bloccati e ci vorranno anni prima che tornino efficienti attraverso i previsti concorsi e le dotazioni informatiche, mentre serve adesso che le imprese assumano, dato che, come stima la Svimez, dallo sblocco dei licenziamenti di fine giugno hanno perso il lavoro 10 mila soggetti, di cui il 46% al Sud”. I Cpi sono al centro del mega concorso che la Regione ha più volte promesso di bandire entro la fine dell’anno. Ma l’iter procedurale è stato rivisto più volte, nell’attesa che qualcuno (dopo la dismissione di Formez) prenda in carico l’assistenza tecnica. O sarà un problema gestire le decine di migliaia di domande che arriveranno. La riforma dei Centri, per altro, rientra in un disegno più ampio, gestito direttamente dal Ministero del Lavoro. Su cui fece leva Luigi Di Maio, quand’era Ministro dello Sviluppo, per addolcire agli italiani la pillola del Reddito di cittadinanza.

Ma anche i privati, come accennato sopra, faticano a dimenarsi nel guado dei burocrati: “Riguardo agli investimenti privati – aggiunge Alessi – quelli più facilmente attuabili, sulle energie rinnovabili, sono bloccati se non addirittura disincentivati dalla Pubblica amministrazione, proprio quando Terna ha avviato investimenti per fare della Sicilia un hub mediterraneo dell’energia prodotta in Nord-Africa e Snam per farne un hub dello stoccaggio e distribuzione di idrogeno e biometano. Investimenti che richiedono un forte indotto e una enorme occupazione specializzata, ma questa opportunità potrebbe essere persa a causa di una Pubblica Amministrazione che da oltre un anno mostra di non avere più nel proprio core business lo sviluppo dell’energia green e l’abbattimento della CO2, nonostante i roboanti obiettivi scritti nei Piani”.

“Per superare l’impasse – propone Alessi – la P.A. abbia il coraggio di non essere ostacolo e di farsi da parte: dia il massimo spazio possibile alle Agenzie private del lavoro, fra cui i consulenti del lavoro che hanno le competenze e le conoscenze dirette per fare incontrare subito domanda e offerta di lavoro, e semplifichi e sblocchi tutti gli investimenti privati nel campo delle energie rinnovabili, sul quale il ‘Pnrr’ scommette 7 miliardi, dei quali, continuando così, in Sicilia rischiamo di non vedere nulla”. Abbiamo già perso 400 milioni potenziali per aver presentato 31 progetti errati al Ministero delle Politiche agricole (che li ha respinti in blocco). Un altro fallimento sarebbe tutto fuorché una sorpresa. Ma va evitato ad ogni costo.

Quello da attivare nell’Isola è un processo difficilissimo, dato che la politica spesso si limita a un ruolo da spettatrice. E in questi ultimi Bilanci, facendo leva sulla carenza di risorse e di liquidità, non ha mai concepito un piano di rilancio della Pubblica Amministrazione – l’unico tentativo riguarda il rinnovo contrattuale del comparto dirigenziale e non dirigenziale – tanto meno del mercato del lavoro. E’ un settore su cui Musumeci & Co. non mettono (quasi) mai il becco. Limitandosi a un ruolo di “rappresentanza” di fronte a grosse vertenze: come nel caso della riqualificazione di Termini Imerese (dove c’è di mezzo il destino di 700 lavoratori) e della richiesta avanzata a Roma, recentemente, per l’istituzione dell’area di crisi complessa nel polo industriale di Siracusa. Fine della storia.

Le Finanziarie non ambiscono a nulla, se non a coltivare l’orticello di poche e mirate clientele. Gli spiccioli stanziati per le imprese – in varie forme: dai prestiti agevolati al fondo perduto – fanno parte di altri circuiti, e comunque hanno vita limitata all’emergenza Covid. Gli interventi di riqualificazione sul territorio (dal restauro delle cappelle delle chiese all’abbattimento di vecchi ruderi come l’ex ospedale Santa Marta di Catania) non sempre risultano funzionali alla ripresa dell’economia. Mancano i soldi. Manca soprattutto la visione. Coi canali della spesa pubblica ormai insignificanti, la politica ha dovuto scegliere l’arma più comoda: l’ordinaria amministrazione. Solo che non funziona neanche quella.