Ogni 23 maggio – quest’anno non si farà per l’emergenza sanitaria – sbarca a Palermo la nave della legalità. Proviene da Civitavecchia, con a bordo una marea di ragazzi, per ricordare l’impegno e il sacrificio di Giovanni Falcone. Ogni anno, nel giorno della strage di Capaci, il popolo dell’antimafia batte un colpo. Si raduna, colorando la città. Si riappropria per qualche ora del vero significato di una battaglia, dei gesti e dei valori rappresentati da un uomo e dai tanti che, come lui, hanno combattuto con coraggio. Il ricordo migliore può essere condito dall’emozione del silenzio. Ma oggi, sempre più spesso, accade che l’unica antimafia certificata sia quella che sbraita, che distribuisce patenti, che divide anziché unire. L’antimafia “chiodata” è diventata il mezzo più facile, nonostante sia il meno raccomandabile, per fare carriera. E scatena guerre di potere, come è accaduto l’altra sera in tv.

A chi è stato minacciato da Totò Riina di fare la “fine del tonno”, non sarà parso vero di finire nella rete di uno dei ministri più manettari che l’Italia ricordi: per questo Nino Di Matteo, domenica scorsa, ha riaperto una ferita che in un paio d’anni s’era a stento suturata, facendo piovere sul Guardasigilli Alfonso Bonafede l’accusa più insopportabile: aver cassato la sua candidatura al Dap, il dipartimento delle carceri, per il timore di arrecare un dispiacere ai reclusi al 41 bis, tra cui Giuseppe Graviano. L’ultima piazzata televisiva, a Non è l’Arena di Giletti, è il sintomo della decadenza dell’antimafia.

Persino l’Antimafia si è rinsecchita di fronte alla vergogna suscitata da alcune vicende. Guardate la fine (im)pietosa di Antonello Montante, che ha lungo sventolato la bandiera della legalità, arrivando persino a ricoprire un ruolo nel Cda dell’Agenzia dei beni confiscati (col ministro Alfano che l’avrebbe voluto presidente): condannato in primo grado a quattordici d’anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico. Montante, stando al giudice per le udienze preliminari di Caltanissetta, Graziella Luparello, avrebbe messo su un “cerchio magico” per spiare i magistrati, che nel frattempo indagavano sui rapporti di una vita fra l’ex leader di Sicindustria e Vincenzo Arnone, boss di Serradifalco. E con quello stesso cerchio – di cui faceva parte l’amico-senatore Lumia, oltre a esponenti ammaestrati delle forze dell’ordine – esercitava un controllo costante sulla vita politica della Regione, allestendo un apparato di potere che pretendeva di controllare le nomine e gestire i flussi di liquidità in uscita dall’assessorato alle Attività Produttive (“Con le attività produttive si può fare la terza guerra mondiale” cit.).

Sono inequivocabili, a tal proposito, le conclusioni della commissione Antimafia di Claudio Fava, dopo un lungo ciclo di audizioni: il cerchio magico di Antonello era “una sorta di costituzione materiale della Regione siciliana capace di resistere per una lunghissima stagione e di interferire sull’indirizzo politico, amministrativo e di spesa delle istituzioni regionali determinando coalizioni e assetti di governo”. I giudici e i siciliani, a posteriori, hanno conosciuto un Montante diverso da quello degli inizi, protagonista della svolta antiracket di Sicindustria, del codice etico, del “chi non denuncia è fuori dall’associazione”, delle costanti segnalazioni di casi di corruzione e illegalità che gli valsero la nomina di Cavaliere del Lavoro. Un impegno coraggioso sul piano personale e istituzionale, macchiato irrimediabilmente da ciò che è accaduto dopo. Che si è scoperto dopo.

L’antimafia di cartapesta – come l’ha definita Fava – è però ampia e variegata. Anche il senatore Giuseppe Lumia, che è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia dal 2000 al 2001, ha visto vacillare il proprio status symbol. A Lumia, che in pochi mesi ha dovuto abbandonare il palazzo della Regione (per l’addio di Crocetta) e il Senato della Repubblica (non ricandidato dal Pd), è piovuta addosso una bella colata di fango. Nella relazione dell’Antimafia di Fava sul “sistema Montante”, il suo nome viene ripetuto 113 volte. E’ definito demiurgo, “senatore della porta accanto” (con il chiaro riferimento alla sua presenza ingombrante nella stanza di Crocetta, dove teneva a rapporto deputati e dirigenti), mandante, regista occulto, “anima nera”.

Secondo l’ex assessore all’Energia di Crocetta, il magistrato Nicolò Marino (“estradato” quando si mise di traverso sugli affari delle discariche private), “Lumia dava la veste politica e di copertura anche ragionevole o razionale a delle azioni che erano in palese violazione di legge”. Mentre Nello Musumeci, all’epoca presidente della commissione regionale Antimafia e deputato d’opposizione, ha ribadito il concetto di Alfonso Cicero, ex presidente dell’Irsap, a proposito dell’occupazione di potere: “Più che “sistema Montante” – sono state le parole di Musumeci in audizione – io lo chiamerei “sistema Lumia”. Il vero regista di quel “cerchio magico” – a mio avviso – era il senatore Lumia”. Che manco a dirlo si è sempre discolpato: “Il mio compito era politico, esclusivamente politico” e non “gestionale (…) Sa, purtroppo… quando in Sicilia si ha qualche abilità politica è chiaro che le leggende metropolitane fioccano”.

Senza dare verdetti sul piano giudiziario – il suo compito è un altro – ma approfondendo le responsabilità della politica e dell’amministrazione, la commissione di Claudio Fava ha fatto fuori, uno dopo l’altro, tutti i paladini dell’antimafia più rinomati. Come nel caso di Rosario Crocetta, che dopo cinque anni di tormentata presenza a Palazzo d’Orleans, accolto come il “sindaco antimafia” (di Gela), sopravvissuto in epoche diverse agli attentati della Stidda e di Cosa Nostra, è finito col disertare un’audizione sul sistema Montante dichiarando di trovarsi all’estero, mentre in realtà si rifocillava alla buvette dell’Assemblea regionale, a pochi metri in linea d’area dalla commissione riunita. Un uomo e un politico colpevole di aver smarrito “la differenza tra dialogo e subalternità” con Confindustria, avendo permesso a Montante la creazione di un governo parallelo, che in poco tempo lo avrebbe fagocitato e riassemblato un po’ a casaccio, facendo venir meno le stimmate della santità.

Ma gli ultimi duri colpi inferti all’antimafia più acclamata, quella da copertina, riguardano Giuseppe Antoci e Paolo Borrometi. Il primo, ex presidente del Parco dei Nebrodi, fu vittima di un presunto attentato stragista la notte del 17 maggio 2016, al buio della Statale fra Cesarò e San Fratello. I massi sull’asfalto e i colpi d’arma da fuoco – che non hanno trovato il bersaglio – sembravano il segno tangibile di un’intimidazione nei confronti di chi ha cercato, con il suo protocollo (poi diventato legge dello Stato), di tenere la mafia dei pascoli alla larga dai fondi europei rivolti ad agricoltori e allevatori perbene. Il secondo, il giornalista vittima di percosse e pesanti minacce di morte, che ha sempre denunciato con dovizia di particolari i boss della Sicilia orientale, specie del Ragusano e del Siracusano, è finito al centro della polemica per alcuni “non ricordo” pronunciati durante l’audizione sul ciclo dei rifiuti. E (forse) per aver mentito sulla pubblicazione di un articolo sullo scioglimento del comune di Scicli. La commissione ha deciso addirittura di sporgere querela.

Mettere in discussione l’attentato stragista di natura mafiosa, nel primo caso (la commissione ha ipotizzato una messinscena), e una ricostruzione dei fatti tutt’al più rabberciata, nel secondo, ha innescato la polemica sul “mascariamento”. Che più o meno suona così: nessuno può mettere in dubbio la bontà del mio racconto e della mia battaglia. Il mito deve rimanere intonso. Un ragionamento che apre uno squarcio in quel mondo lì: dove oltre ai “paladini dell’antimafia” compaiono i “mascariatori di professione”, e l’opinione pubblica fatica a districarsi nella confusione generata dagli uni e dagli altri, finendo per avvalorare la tesi dei “like” su Facebook. Vince, ed è più credibile, chi ne ha di più.

L’ultima vicenda, il duetto televisivo fra Bonafede e Di Matteo – uniti dal giustizialismo grillino, ma divisi sulla dignità professionale – riconsegna una chiave interpretativa di cosa voglia dire, oggi più di prima, essere un eroe dell’antimafia. Il magistrato, protagonista dell’inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia e di mille altre questioni sui “picciotti” di Cosa Nostra, l’ha spiegato in un’intervista a Repubblica: “Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l’esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente”. Tanto meno una nomina al Dap. Anche se in questo caso, secondo il racconto di entrambi, era stato Bonafede a impiattare la proposta. Salvo poi rimangiarsela. E finendo per trasformare una questione terribilmente seria in una marchetta televisiva da mezzanotte e dintorni. Che fine.