Nella sua invettiva contro i professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia fu un precursore svogliato. Colse, e anticipò, un vulnus di esibizionismo che si annidava dentro il movimento antimafia ma diresse la sua invettiva su due obiettivi sbagliati: e di questo bisogna tenere memoria, altrimenti finiamo per far di Sciascia agiografiche che non merita e non avrebbe voluto. Quegli obiettivi, d’una carriera presumibilmente costruita all’ombra della lotta alla mafia, avevano il nome del sindaco di Palermo Orlando (evocato, non citato) e quello del procuratore di Marsala Paolo Borsellino (evocato e citato).

Ora, riannodare il filo di quella querelle, trent’anni dopo, non serve. Sciascia sbagliò clamorosamente bersaglio, come ebbe lui stesso ad ammettere con Borsellino prima di morire. Ma non sbagliò nell’intuizione che quel rumore di sciabole e quel lampeggiare di sirene avrebbero potuto arrecar danno (non certo per colpa del giudice Borsellino) alle ragioni della lotta alla mafia.

Eppure, se guardiamo le cose e le storie di questi mesi, perfino l’invettiva di Sciascia (pur in parte profetica) sembra provenire da altri pianeti. Perché storie come quella di Montante, e dello stuolo di malinconici turibolanti che s’accontentavano alla sua corte di qualche tozzo di companatico, sono così tragicamente ridicole da poter essere liquidate senza scomodare Sciascia. Montante sta ai “professionisti” a cui alludeva Sciascia come la commedia sta alla tragedia. Parodia di se stesso, perfino nell’idea che carriere, profitti, favori ed elemosine si potessero schedare in un file excel da occultare in un retrobottega di casa.

Andatevi a leggere l’allucinata pedanteria con cui il Montante si annotava nomi, luoghi, pranzi, favoretti, assessori e senatori. Andatevi a risentire le intercettazioni ambientali in cui la verità delle parole (la loro trasandatezza, la loro miseria) dice tutto sul protagonista, sui comprimari e sui teatrini della politica, del giornalismo e della spesa in cui questi spettacoli andavano in scena. Per smascherare gente così sarebbe bastata una pernacchia ben assestata: invece ce li siamo tirati dietro, con il loro petto gonfio di medagliette di latta, fino all’inevitabile epilogo. Tutti sapevano, tutti sanno, ed è questo forse il torto maggiore della cosiddetta antimafia: pensare che certe cose facciano ormai parte del panorama. Inevitabili. Inoffensive. Come le due auto di scorta che hanno scortato il Montante in carcere: mantenute per due anni e mezzo nonostante l’ex presidente di Confindustria Sicilia avesse ricevuto un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora oggi il signor Montante conserva per sé il rango di presidente della Camera di commercio di Caltanissetta mentre uno stuolo di legulei e di assessori (attuali e passati) s’affanna a spiegare che nessuno ha potere di revoca né di decenza.

L’antimafia, in tutto questo, c’entra poco. E’ più una concezione antica e irrimediabile del potere: della quale noi siciliani non riusciamo a fare a meno.

E su questo Sciascia ci avrebbe aiutato a capire.