Non ho mai creduto all’esistenza di Babbo Natale e non gli ho mai scritto letterine. Credo, o meglio, ne sono certo, di non aver mai ricevuto regali per Natale. Tranquilli, sono stato ugualmente un bambino felice e purtroppo nemmeno ben più seri tracolli dell’esistenza mi hanno incattivito, mannaggiammé, ché avrei potuto usarli come alibi perpetui per quel bel carattere di merda grazie al quale certuni hanno fatto e fanno fortuna nella vita e nel lavoro, temutissimi e dunque rispettatissimi. Ma tant’è.

Il mio Natale erano i Morti, un mese prima di Gesù Bambino. I giocattoli non li trovavo la mattina del 25 dicembre sotto l’albero ma quella del 2 novembre nascosti in sgabuzzini, armadi, soffitte (nella casa dei nonni a Porto Empedocle ce n’era una bellissima con due bauli, forse tre). I miei Babbo Natale erano i “miei morti”: essendo figlio unico di figli unici, i “miei morti” erano soltanto i nonni e, quand’ero piccolissimo, di passata prematuramente a miglior vita ce n’era solo una. Dopo pochi anni la seguì un altro avo ma forse non era più tempo di Morti, per i regali intendo, l’unica cosa che mi premeva, il giorno in cui il secondo nonno sfiatò definitivamente, era vedere lo Zecchino d’oro in tv e me ne fu dato, molto modernamente, il permesso.

Il mio Natale era altro: la cena della vigilia con i due nonni rimasti entrambi vedovi, quello empedoclino che svernava da noi a Palermo, quella palermitana rimasta da sola al comando del suo negozio, tre o quattro zii e una cugina (secondo grado, ovviamente), la tavola imbandita nel salone, le pietanze preparate da mio padre (memorabili – in anni diversi – uno strepitoso profiterole salato alla crema di formaggi e uno “spiziello” con brodo di pesce), la signorina buonasera della tv che annunciando i programmi augurava Buon Natale, il film che seguiva, sempre di Chaplin o di Stanlio e Ollio, il presepe che è ancora lì da 65 anni con le palme spelacchiate e una serie di imbucati di dimensioni oramai incompatibili tra loro, cristianamente accolti nel corso dei decenni, gli alberelli sparsi per casa che mio padre si dilettava a “fabbricare” riciclando vecchi ninnoli delle feste o addobbi di scarto, e tra questi abeti mignon ce n’era uno fatto con un vasetto di plastica arancione della Cremolata che a me sembrava bellissimo. Mi bastava questo. E ditemi voi se è poco. Tanto che soverchiava pure.

Ecco, è quel Natale lì che adesso mi manca. Le altre vigilie sono state sì festose, addirittura tonitruanti (come facesse mia suocera a preparare per 30 e più commensali dalle sei alle otto portate è ancora un arcano allo studio di noi posteri), alcune più tristi perché qualcuno era morto da poco e Babbo Natale è arrivato solo per i figli e finché ci hanno creduto. Ma è quel Natale lì che rivorrei, quello per cui non mi serviva l’illusione di vecchi canuti su slitte trainate da renne o lo scintillìo di carte da regalo ai piedi di conifere esagerate per altezza e finzione, quel Natale di piccole luci colorate e di anime semplici ma colorate anch’esse, sul riverbero della tv in bianco e nero che trasmette la Orsomando ecumenica, Carosello e Charlot con la bombetta.

tratto da Facebook