Chi verrà dopo Leoluca Orlando dovrà essere in grado di garantire a Palermo un continuum culturale che la sua storia merita, evitando – però – che la quinta città d’Italia rimanga una baronessa in ghingheri ma senz’anima. Detta così sembra (quasi) facile. In realtà il compito è difficilissimo. Il professore, nell’ultimo anno e mezzo, ha smesso di amministrare. E al netto del vagheggiamento sulla “visione” (“Non si permettano di dire che Palermo non è cambiata: le ho trasferito la mia intera rete di contatti internazionali”, ha detto a Repubblica), lascerà numerose macerie: in primis sul fronte cimiteri, dato che il trasferimento delle bare insepolte nei loculi di Sant’Orsola procede a rilento, il forno crematorio è rotto e a Ciaculli non si muove foglia (la Regione ha bocciato la proposta di inserire il progetto tra quelli finanziabili con la prima tranche di Fondi Fsc); poi ci sarebbero i rifiuti, la mobilità, i cantieri infiniti. Il degrado morale e materiali dei quartieri periferici. Insomma, mezzo disastro che da qui ai prossimi mesi potrebbe diventare intero e spaventare chiunque.

Eppure i pretendenti alla successione del sindaco Orlando non si contano. Almeno nel centrodestra. Dove in pole position, grazie al transito nell’Udc e al triumvirato che lo sostiene (Cesa-Micciché-Salvini) è l’ex rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla. Attuale assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione professionale, avrebbe la benedizione di Musumeci, che in questo modo – in maniera definitiva – si sbarazzerebbe di uno dei possibili contendenti per palazzo d’Orleans. La candidatura di Lagalla è stata benedetta dal leader di Forza Italia, Gianfranco Micciché. Cosa impensabile fino a un paio di mesi fa, quando i berluscones, al termine di un vertice, misero in guardia gli alleati: “E’ stata unanimemente condivisa la scelta di proporre un candidato a sindaco di Palermo che sia espressione del partito azzurro”. Ma da quel 26 luglio sono cambiati gli scenari. Se il centrodestra, alla Regione, litiga in maniera furente, a palazzo delle Aquile invece collabora, e Lagalla sembra essere un buon compromesso per garantire “pace e stabilità”. Anche Salvini ha detto sì, rinunciando così a una delle poltrone che fino a qualche giorno fa sembrava pretendere. Gliene rimangono un paio: quelle del ‘nemico’ Nello, o quella dell’amico Salvo. Il sindaco di Catania.

Ma non c’è soltanto Lagalla. La discesa in campo dell’Udc e di Cesa, secondo alcuni rumors, avrebbe indispettito Saverio Romano, l’altro centrista che non avrebbe disdegnato un’indicazione per la massima carica a palazzo delle Aquile. Il leader del Cantiere Popolare, nelle ore in cui Lagalla stava per accasarsi nello Scudo, diffondeva sui social un messaggio criptico: “Anche domani mattina, come ogni mattina della mia esistenza, mi riconoscerò guardandomi allo specchio, radermi sarà ancora gradevole”. Magari non c’entrerà nulla. O magari sì. Il tempismo lascia pensare. La discesa in campo dell’ex rettore è un colpo ferale anche alle ambizioni di Gaetano Armao, in attesa di un segnale dalle altre forze della coalizione. Stavolta sarà più difficile per Berlusconi intervenire.

Nel centrodestra rimangono vigili altri interpreti come Carolina Varchi, deputata nazionale di Fratelli d’Italia; i leghisti Marianna Caronia e Vincenzo Figuccia; oltre al neo acquisto di Salvini, Francesco Scoma, che si era detto pronto (ma dopo l’addio a Italia Viva l’autostrada è diventata una trazzera). E le donne che Miccichè non avrebbe affatto disdegnato: da un lato la presidente dell’Aiop Barbara Cittadini; dall’altro l’ex segretaria generale della Regione, Patrizia Monterosso. Di fronte a cotanta abbondanza, però, qualcuno protesta: “Ho come la sensazione che ciascuno giochi a prendere la rincorsa per fare a gara a chi salta più in alto – ha detto Figuccia in persona – ma, francamente, mi piacerebbe che ci fosse maggiore concretezza nel restare con i piedi per terra. Attenzione, non che la Lega non abbia nomi spendibili al suo interno, anzi, abbiamo una qualificatissima classe dirigente, disposta a sacrificarsi con dedizione ed impegno per governare con spirito di servizio la nostra città. Ma al momento, all’interno della coalizione, non possiamo concentrarci sui litigi e sui tira e molla”.

Ma se a destra il toto-nomine è una maionese impazzita, a sinistra nessuno sembra avere la voglia (e il coraggio) di metterci la faccia. L’eredità di Orlando, specie per i risultati dell’ultimo quinquennio, è difficile da raccogliere. Così il fedelissimo Fabio Giambrone, che di recente, assieme al sindaco, ha comunicato il suo ritorno del Pd (dov’era stato “trombato” già una volta, in occasione delle Politiche 2018), se ne sta in disparte. E Giusto Catania, che sembra l’asso nella manica di Sinistra Comune, difficilmente troverà un seguito elettorale capace di consentirgli il grande salto. Restano fuori i Cinque Stelle, all’opposizione da cinque anni, che meritano una riflessione a parte. Già, perché Orlando – quasi inconsapevolmente – ha reso impossibile un’alleanza fra i due partiti (Pd e M5s). Giampiero Trizzino, uno dei grillini più validi all’Ars, aveva dato la propria disponibilità a scendere in campo: ma in occasione dell’ultimo scandalo Amap per i depuratori che non funzionano, e il tentativo da parte del professore di sottrarsi al confronto, ha ribadito che con certa gente non vuole averci più a che fare. Tradotto in parole povere: se si vuole costruire qualcosa insieme, deve essere il Pd ad affrancarsi dal sinnaco Ollando.

Anche il segretario regionale Anthony Barbagallo, alla Festa dell’Unità di Palermo, ha ammesso le difficoltà nel presentare una proposta unitaria agli elettori del “campo largo”. Nel far confluire due esperienze contrapposte – l’Orlando di governo e i Cinque Stelle di lotta – in un progetto politico comune. Ma su una cosa, a margine dell’assemblea regionale di Sicilia Vera, a Taormina, è stato netto: “Il Pd non può prendere in considerazione la proposta politica che viene da un assessore di Musumeci, un deputato – per di più – che ha sempre sostenuto il governo più di destra della storia di questa terra. Il sostegno a Lagalla non è all’ordine del giorno”. Sull’alleanza coi grillini, invece, il segretario dem spiega di non poter aspettare in eterno: “L’indicazione di un responsabile regionale dei 5 Stelle, soprattutto in vista delle Amministrative di Palermo, è indifferibile. Fin qui abbiamo manifestato la voglia di definire un perimetro e una coalizione. Ma se entro ottobre non arriva l’indicazione di Conte, il Partito Democratico andrà avanti”. Per la sua strada, s’intende.

Resta sullo sfondo Italia Viva. La visita dello scorso weekend di Matteo Renzi non ha fugato i dubbi sulle strategie del partito, che a Sala delle Lapidi per il momento è il gruppo più numeroso. Anzi, l’ex presidente del Consiglio si è congedato con un messaggio a Micciché: “Dobbiamo inventarci qualcosa” (l’incontro si terrà a Firenze per metà ottobre). Per la Regione e forse anche per il Comune, dove i renziani, dopo qualche anno trascorso nella maggioranza, da poco hanno fatto le valigie. E dai banchi dell’opposizione hanno cominciato a picconare. Il coordinatore regionale Davide Faraone, che pure ha perso per strada un po’ di pezzi, non abbandona la speranza: “Puntiamo ad essere il primo partito a Palermo. Chi ci sottovaluta avrà davvero una brutta sorpresa. Perché noi la politica la facciamo in parlamento e non sui social e la passione noi la misuriamo tra la gente e non con i like”. L’addio di Francesco Scoma e quello – vicinissimo – di Edy Tamajo, però, tolgono a IV due possibili protagonisti. Ecco perché i renziani, avvalendosi di più miti consigli, potrebbero rivalutare la candidatura di Lagalla. Con l’Udc, d’altronde, condividono un assessore alla Regione (Daniela Baglieri, responsabile dei rifiuti), mentre con Forza Italia hanno instaurato un feeling che almeno alle Comunali potrebbe ri-sdoganare il centro. Alla faccia dei sovranisti.