Il grado d’attività di un partito si misura dalla dialettica interna. In Forza Italia, allo stato attuale, ce n’è persino troppa. Lo strappo di Pogliese e Catanoso alla vigilia della compilazione delle liste per le Europee, il voltafaccia di Armao e consorte, che non vedono altro Dio al di fuori di Berlusconi, le iniziative temerarie di Miccichè rivolte al centro: tutte facce della stessa medaglie, che mirano a scompaginare lo status quo di un partito che annaspa e attende di pesarsi nelle urne.  Anche fra Lega e Movimento 5 Stelle, che in Sicilia provano a convergere silenziosamente, e a Roma si scannano sul caso Siri, è in corso una sintesi di posizioni e opposizioni. Persino Diventerà Bellissima di Musumeci, nella sua realpolitik farcita di “neutralità”, lancia dei segnali per il futuro (e il centrodestra farebbe bene a non escluderla da eventuali progetti). Ma in questo scenario, a Palermo, si registra un’assenza fondamentale: quella del Pd.

Un’assenza che non risale alla notte dei tempi, bensì allo scorso 4 marzo, esattamente un anno dopo le Politiche. Quando Nicola Zingaretti diventa segretario nazionale del partito, concludendo l’epopea renziana. Che in Sicilia, però, vive di un prolungamento innaturale: la segreteria di Davide Faraone, che dell’ex premier è un fidato scudiero. Non che Faraone sia rimasto zitto: è sceso in piazza, ha segnalato le anomalie delle infrastrutture siciliane, non ha mai abbassato la guardia sui temi civili. Si è caratterizzato, come Miccichè d’altronde, per un’opposizione ferrea – ma al momento sterile, stando ai sondaggi e al primo turno delle Amministrative – nei confronti di Salvini e dei 5 Stelle (esattamente in quest’ordine). Ha partecipato attivamente a una sola campagna elettorale, quella di Castelvetrano, l’unico comune in cui il Pd ha presentato il simbolo ed è risultato sconfitto. Ma ha preferito non esporsi, coprendosi, su altre questioni. Quelle relative a una “reunion” sicula dei moderati.

Ipotesi rilanciata a più riprese dal coordinatore regionale di Forza Italia e capace di trovare qualche sponda audace e coraggiosa anche nel Pd, che però, a livello nazionale, non fa certo mistero di non gradire. Ecco, è in questa diarchia Zingaretti-Faraone o Zingaretti-Renzi che il Pd rischia di rimanere impantanato. Senza una linea politica, in attesa di un voto – le Europee – che rischiano di consegnare alla Sicilia lo stesso partito di un anno e mezzo fa, sconfitto pesantemente alle Regionali. Se il Pd non recupera stando muto, bisogna per forza riprendere in mano alcune questioni, a partire dall’orientamento che questa opposizione deve assumere a Palazzo dei Normanni e nell’Isola.

Chi sono i temerari? Non tanti, per la verità. All’ipotesi di allargare al centro, si è dichiarato pubblicamente favorevole Mr. Preferenze. Il catanese Luca Sammartino, deputato regionale e autore, anche alle ultime Amministrative, di un’intesa che ha portato i “dem” – senza simbolo – a conquistare il comune di Aci Catena con Scandurra, un ex An che sembra aver ricevuto in incognito anche la benedizione della Lega. Non che Sammartino sia intenzionato a fare patti col diavolo, ma si sa che nelle realtà locali le convergenze sono necessarie (talvolta, naturali) per sfangarla. E lo stesso Sammartino, che alle ultime Regionali prese 32mila voti, più di tutti in Sicilia, è la naturale testa di ponte di un accordo, al momento complicatissimo, con Forza Italia e i centristi: “Le amministrative testimoniano il fatto che in Sicilia ci può essere ancora l’idea di una classe dirigente che si appassiona alla politica – ha spiegato Sammartino nel suo lungo giro di parole – Mettere insieme storie e identità diverse, non rievocando ricordi del passato, ma riaccendendo la voglia di scegliere il buon governo del territorio e gli amministratori per la loro capacità, offre una ricetta sulla quale la politica regionale deve riflettere”.

Non una sigla comune, ma un percorso comune. L’idea è ancora opaca, il progetto poco lineare. Ma qualcosa bisogna fare, è questo il punto. “Se deve nascere qualcosa di nuovo non deve nascere dalla somma di simboli – ha provato a spiegare Sammartino – Qualcosa nasce e diventa solida se riaccende la fiamma nella gente. Ai siciliani occorre dare un modello di certezza”. Un passo a destra per convergere al centro può essere il male minore. Il compromesso da firmare per non scomparire (forse). Nell’habitat del Pd qualcuno sarebbe in procinto di accettare l’idea: dalla deputata, ex cuffariana, Luisa Lantieri, passando per Nello Dipasquale, in passato sindaco per Forza Italia e Pdl a Ragusa, e che tuttora ama definirsi un democristiano. Ma c’è qualcun altro – in nome del vecchio muro tuttora eretto – che all’idea non si entusiasma. Da Peppino Lupo, capogruppo all’Ars, ad Antonello Cracolici, che in una recente uscita ha definito “intelligente l’operazione di Micciché”, ma anche ribadito che fare un partito unico è un’opzione che non sta “né in cielo né in terra”.

Il Pd si copre perché non sa che dire. Al di là delle posizioni personali, non emerge altro. Ad esempio, il vice segretario nazionale Andrea Orlando, che qualche giorno fa era in Sicilia per la presentazione della candidatura di Michela Giuffrida, ha rispetto al mittente l’ipotesi di un accordo locale con Forza Italia e sui casi di Gela e Bagheria, in cui i due schieramenti hanno fatto quadrato attorno a un solo candidato sindaco, ha promesso di aprire una discussione a Roma, con Zingaretti, per fare ordine. Insomma, la politica dei compartimenti stagni, in cui nessuno – almeno a sinistra – è autorizzato a fare passi avanti, tanto meno verso destra. La diarchia che offusca il pensiero libero, e l’azione libera. Dinamiche di un partito che non c’è mai stato. Tanto che all’ultimo congresso regionale – ora si è cercato di rimediare con una tregua e posando insieme per delle foto “tarocche” – lo scontro era diventato insopportabile. E provocò il ritiro di una parte, quella di Teresa Piccione, sull’Aventino.

Dall’insediamento del “paparino romano” (per dirla con Faraone), le comunicazioni sono state interrotte. E il partito non si sa bene dove vada a sbattere. Anche per le Europee rimane compatto – sulla carta – a sostegno di candidati che nascono, più o meno tutti, dai palazzi romani. L’unica “renziana”, Valeria Sudano, ha scelto di tirarsi fuori, facendo agitare, e infine ritirare, i vecchi alleati di Sicilia Futura. Che infatti, con Totò Cardinale in testa, hanno già deciso di convertire al centro, ponendosi come pilastro di una nuova composizione politica che attende di sapere cosa faranno i renziani. Almeno loro. Gli altri, quelli più di sinistra e della vecchia guardia, osservano interessati. Ma neanche troppo. Hanno un garante – Zingaretti – e nessuna voglia di scomodare patti del Nazareno mal riusciti. Il rischio del mestiere è smettere di contare, anche perché in Sicilia il resto della sinistra non si vede. Ci sarebbe Corradino Mineo, candidato alle Europee, che è un vip più che un referente politico vero e proprio. Di bersaniani neanche l’ombra, esauriti con il suo leader. Mentre quelli di +Europa, papabili commensali di un banchetto con vista sul futuro, hanno preferito fare da soli.

Il Pd non va a destra, non va al centro, ma di questo passo (forse) non andrà lontano. E sarà difficile riconquistare i nostalgici senza aver prima deciso qual è la linea da seguire. Il silenzio per l’eternità? Anche no…