I ministri più discussi della fallimentare esperienza del Conte-due, terminata con una crisi al buio che ritrova in Mario Draghi un barlume di speranza, sono legati da un sottilissimo fil rouge che non può farci gonfiare il petto: l’essere siciliani. Lo è Alfonso Bonafede, Guardasigilli pasticcione, finito nel mirino dei renziani per il suo tentativo maldestro di riformare l’istituto della prescrizione; lo è Nunzia Catalfo, ministra del Lavoro e madrina del reddito di cittadinanza (percepito anche dai boss); lo è la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, sostenitrice dei banchi con le rotelle, commissariata più volte sulla riapertura delle scuole. A proposito di banchi, Renzi ha rovesciato il tavolo su loro due – Bonafede e Azzolina – che i delegati di Pd e Cinque Stelle, al tavolo della crisi, avevano il compito (e l’obbligo) di difendere. L’avvocato del popolo non ci avrebbe mai rinunciato: piuttosto che cacciare Fofò, gli avrebbe affidato un altro dicastero. Ma privarsene no, mai.

I due hanno fatto la gavetta insieme all’università di Firenze, quando l’ex ministro, dopo aver abbandonato precocemente la carriera da disk jockey nella sua Mazara (non rimane quasi traccia di quelle estati torride a urlare “su le mani” nel microfono), ha affiancato l’allora professore di Diritto civile, avv. Giuseppe Conte, nella professione accademica. Da assistente, va da sé. Il filo non si è più spezzato e alla vigilia delle elezioni Politiche del 2018 si è addirittura rinsaldato, con la presenza di Giuseppi nel team dei papabili ministri a supporto della candidatura di Di Maio. Poi, per un caso più fortuito che programmato, è diventato Papa. E ha fatto Bonafede cardinale. Un perfetto ministro “manettaro”, di quelli che non potevano non piacere a Beppe Grillo, che di questa metamorfosi del potere – da competente e ladro, a incompetente e basta – è stato e resta tuttora il padre.

Bonafede ha macchiato la sua permanenza in via Arenula di qualche gaffe rivedibile: come il video sul rientro in Italia di Cesare Battisti– era in aeroporto con Salvini ad accoglierlo come si fa con gli eroi di guerra – intitolato “Un giorno che difficilmente dimenticheremo”. La Camera Penale di Roma presentò un esposto, incolpando i videomaker di Fofò di aver mostrato un prigioniero, sebbene sanguinario, “come una bestia allo zoo”; Bonafede provo a difendersi parlando di “un tributo alla polizia”. L’indagine a suo carico fu archiviata dalla Procura di Roma, ma la questione di inopportunità resta lì, sul piatto. È andata peggio con la nomina di Francesco Basentini a capo del Dap, avvenuta dopo un’intensa interlocuzione con l’ex pm della Trattativa, Nino Di Matteo: scaricato (forse) perché non piaceva ai boss. Ne seguì un disdicevole siparietto televisivo, pieno d’imbarazzi e di silenzi, in cui Bonafede si giustificò dicendo che lo vedeva meglio nei panni di direttore degli Affari penali e non del Dipartimento di Amministrazione penitenziaria. Dove, per inciso, durante la prima fase del Covid, si consumò lo scandalo dei permessi “premio” ai detenuti del 41-bis per sfuggire al contagio.

I Cinque Stelle, fra Bonafede e Di Matteo, decisero di non scegliere. Confermarono la fiducia al magistrato e anche al ministro, che da lì a poco ne avrebbe combinata un’altra delle sue. La riforma della prescrizione. L’ennesima dimostrazione manettara della nuova classe politica al potere. Come se non bastassero i trojan nei cellulari. Bonafede, con la norma entrata in vigore a gennaio dell’anno scorso, decise di stoppare (unilateralmente) i termini della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Una soluzione detestata dai renziani, perché da un lato non avrebbe provveduto a ridurre i tempi delle indagini dei pm, dall’altro avrebbe reso infiniti i processi successivi a quelli di primo grado. Conte, per cercare di smussare gli spigoli, si affidò a cinque tavoli tematici e propose un lodo per “ridimensionare” Bonafede: un emendamento alla riforma del processo penale i cui termini, però, sono scaduti il 14 gennaio scorso. Con la promessa, mai attuata, di dar vita a una commissione ad hoc per riportare la discussione al centro dell’accordo di governo. Il Covid ha derubricato tutto a questioni di secondaria importanza. E il Ministro non ha fatto nulla per ridiscuterne, nemmeno al tavolo della crisi. Adieu.

Su Lucia Azzolina, ministro originario di Floridia (dove ha frequentato le scuole dell’obbligo) ma trapiantata al Nord sin dall’inizio della sua carriera da docente, il giudizio è più commisurato alle questioni della pandemia, vista, a tratti, come una grande opportunità di rinascita (“Quest’anno faremo la storia”, aveva annunciato alla vigilia del ritorno in classe, a settembre). Peccato che l’unico segno tangibile della sua presenza sia stata l’incaponimento su questioni di principio. Come, ad esempio, l’acquisto dei banchi con le rotelle che “sono un patrimonio strutturale per le nostre future generazioni”. Ci credeva davvero l’Azzolina, che all’ennesima domanda sull’utilità di questi arredi, si è spinta a una difesa oltranzista: “Cambiano il modo di fare didattica, anche Piero Angela ci faceva i video… Nelle scuole più evolute le utilizzano da dieci anni. Noi avevamo non solo l’esigenza di garantire il distanziamento fra i ragazzi, ma di fare un investimento per la scuola del futuro”.

Oggi molti banchi con le rotelle – tecnicamente: “sedute innovative” – sono finiti in soffitta. Altri sono stati “ritirati”, perché, come asserisce l’assessore alla pubblica istruzione della Regione Veneto, Elena Donazzan, “erano causa di mal di schiena”. Inoltre, hanno una ribaltina talmente ridotta (28 centimetri per 50) che è impossibile per i ragazzi metterci più di un libro o un quaderno alla volta. Era nella facoltà dei presidi richiederli, ma in Sicilia – su 400 mila nuovi banchi consegnati dal Miur – quelli con le rotelle sono una sparuta minoranza. E vengono usati, per lo più, nei laboratori. Hanno un costo medio di 274 euro (Skuola.net ha stimato la spesa complessiva in 119 milioni), rispetto ai 93 di un tradizionale monoposto. Insomma, una “svolta per il futuro” evitabile. Inoltre, la Azzolina verrà ricordata come la ministra della Dad – che ha accentuato la dispersione scolastica – ma anche come quella che, dopo aver capito l’errore (“La Dad non funziona più”), avrebbe voluto ripristinare a tutti i costi la didattica in presenza. Prima a metà dicembre, nella fase calante della seconda ondata; poi la prima settimana di gennaio, al termine delle vacanze di Natale. Ma in Consiglio dei Ministri è stata spernacchiata, soprattutto dal Pd. Mentre i governatori, pur tenendo conto delle indicazioni del Cts nazionale, e quindi del governo centrale, hanno operato secondo prerogative diverse. Amen.

La collega Nunzia Catalfo, anch’ella dei 5 Stelle, non ha onorato fino in fondo la sua etichetta: quella di madrina del Reddito di cittadinanza. Da un lato, ha sempre confermato la bontà di una misura che – se può aver ridotto in alcuni casi la povertà – con le sue evidenti lacune ha garantito ai “furbetti” e ai boss delle cosche di truffare lo Stato; e, dall’altro, non ha mai rappresentato un incentivo reale allo sviluppo delle politiche attive del lavoro, dato che il numero di beneficiari che ha trovato un impiego (anche temporaneo) è risibile rispetto agli assegni elargiti ai “divanisti”. Inoltre la Catalfo ha lasciato nel guado dell’incertezza la “seconda gamba del reddito”, i navigator, per i quali – dopo aver predisposto un contratto a tempo determinato, di appena venti mesi, nei Centri per l’Impiego – ha proposto una semplice proroga per tutto il 2021, senza alcuna prospettiva di stabilizzazione. Ma come, non dovevano essere i propulsori della rinascita? Quelli che, scandagliando le bacheche regionali delle offerte di lavoro (per una piattaforma comune non gli è mai stata garantita dallo Stato) avrebbero dovuto ricollocare gli “inoccupati”? Evidentemente no, non ci credeva neanche lei.

Di questo governo ad alto tasso di sicilianità, facevano parte anche Peppe Provenzano e Giancarlo Cancelleri. Il Ministro per il Sud, da sempre con un occhio vigile nei confronti della Sicilia, ha sviluppato un piano di fiscalità di vantaggio, con l’obiettivo di detassare le imprese che assumono. Se ne vedranno gli effetti da qui al 2029 (magari). E ha fatto affezionare il Pd siciliano, sempre un po’ avulso dalle decisioni romane, alla sua azione di governo. Garantendo all’Isola una sponda quasi insperata. L’ex vicepresidente dell’Ars, che ha rinunciato a un posto certo (Palermo) per l’incerto (Roma), ora inevitabilmente ne pagherà le conseguenze (sul web si spreca l’esultanza beffarda dei musumeciani). Ma durante questi 15 mesi da viceministro delle Infrastrutture, ha mostrato un discreto attivismo. Riannodando i fili e i cantieri per la realizzazione di alcune incompiute (come la Ragusa-Catania, o il viadotto Himera lungo la A19) e facendo tramontare, quasi del tutto, l’ipotesi del ponte sullo Stretto (meglio un tunnel). In un Conte-ter, probabilmente, sarebbe diventato ministro. Ora, invece, dovrà reinventarsi. Scegliendo da che parte stare: se con i Cinque Stelle o con il partito di Conte. Quest’ultimo – a causa del vincolo grillino del “doppio mandato” – potrebbe garantirgli la terza candidatura a palazzo d’Orleans. Un aspetto non trascurabile.