Dopo quasi trent’anni e dopo quattro processi, rimane senza autori uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, quello sulle indagini per l’assassinio di Paolo Borsellino. La recente archiviazione del procedimento a carico di due ex pubblici ministeri di Caltanissetta lascia tuttora senza risposta gli interrogativi sulla gestione di alcuni pentiti – Scarantino per primo – che ha deviato l’accertamento sulla strage di via d’Amelio e avviato su binari sbagliati la ricerca della verità giudiziaria.

Rimane la certezza del rapporto diretto tra la scelta stragista della mafia e la decisione della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992, che appose il sigillo definitivo al maxi processo e confermò la sentenza di primo grado. Svanirono così le residue speranze dei capi della cupola in un esito diverso che sarebbe stato garantito dai loro referenti politici siciliani e romani. Quella sentenza accolse in pieno l’impianto accusatorio e le condanne a diciannove ergastoli e a 2665 anni di pene complessive per i 460 criminali responsabili, tra l’altro, di 600 omicidi commessi, tra il 1981 e il 1983, nella sola città di Palermo. La decisione smentiva che vi fossero esponenti del potere politico, del cosiddetto terzo livello, disponibili o in grado di garantire loro l’immunità, come altre volte era avvenuto nella storia siciliana. Gli affidamenti ricevuti o puramente millantati sui quali, ancora fino alla vigilia del giudizio della Cassazione, contavano i vertici di Cosa nostra, e con i quali avevano tentato di rassicurare i loro associati, erano venuti meno ed era stata, anzi, confermata la volontà dello Stato di infliggere un colpo durissimo alla criminalità dopo oltre un secolo di indifferenza, di contiguità e di compromissioni. Un finale, questo, che suscitò la reazione rabbiosa di Riina e compagni e li indusse a cercare la vendetta nei confronti di quanti apparivano “traditori” e di chi aveva messo insieme i tasselli per aprire loro le porte di quello che sarebbe stato, di lì a poco, il 41 bis.

In molte ricostruzioni, di quegli eventi non si trovano i riferimenti ad alcuni passaggi molto importanti che spiegano in modo compiuto il loro svolgimento ed assegnano alla politica e al governo un ruolo del tutto diverso da quello della narrazione prevalente. A tale riguardo può essere utile una sintetica ricostruzione su due versanti: quello giudiziario, che con la costituzione del pool e con l’impegno di alcuni tra i migliori esponenti di quell’ordine, consentì di svelare la nuova organizzazione della mafia e i suoi nuovi interessi e quello politico che assecondò l’iniziativa della magistratura, anche con la predisposizione di strumenti indispensabili e con l’emanazione di provvedimenti di legge, per consentire lo svolgimento del processo e per evitare che venisse inceppato.

Tutto cominciò nel 1980, dopo la uccisione del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile e del procuratore della Repubblica Gaetano Costa, con la scelta di Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruttorio del tribunale di Palermo di affidare ad un gruppo di magistrati le indagini sui delitti di mafia. Era già in nuce il pool che sarebbe stato costituito da Antonino Caponnetto, subentrato proprio a Chinnici dopo il suo assassinio. Com’è noto, toccherà a quel pool raccogliere un’enorme quantità di indizi e di prove che consentirono il rinvio a giudizio e il processo per i 460 criminali. Il lavoro di Falcone, di Borsellino, di Leonardo Guarnotta e di Giuseppe Di Lello fu accompagnato e obiettivamente favorito da un clima politico nuovo e sostenuto da una decisa azione del governo. “Ci è arrivato” – disse Caponnetto – “quell’ossigeno da Roma per quasi due anni con Martinazzoli al ministero della Giustizia e Rognoni e Scalfaro agli Interni”. I tre esponenti democristiani e l’intero governo fornirono “l’ossigeno necessario” alla preparazione e successivamente alla celebrazione del più grande processo della storia, a cominciare dalla costruzione di un’apposita sede per il suo svolgimento, l’aula bunker.

Il governo intervenne ancora per bloccare i tentativi dilatori dei difensori di alcuni imputati che, avvalendosi di una norma di legge, avevano chiesto la lettura integrale degli atti della sentenza istruttoria – più di 8600 pagine e quaranta volumi di allegati – un’operazione che sarebbe durata circa due anni. Quella norma fu modificata con un apposito decreto legge e gli “azzeccacarbugli sabotatori della giustizia”, come li definì Scalfaro, furono neutralizzati. Quando, nel settembre del 1989, vennero rimessi in libertà per decorrenza dei termini quaranta boss, tra i quali Michele Greco, il “papa”, il governo presieduto da Andreotti, nel giro di poche ore, con un decreto legge, li rimise in galera. Si trattò, scrisse Cossiga, presidente della Repubblica, superando molte perplessità sul provvedimento, di un “necessario atto di guerra”.

Quell’atto “necessario” incontrò l’ostilità di Mauro Mellini, il quale, alla Camera dei deputati, in rappresentanza dei Radicali, con riferimento a Falcone, sostenne che il provvedimento era “adattato alla stravaganza e alla megalomania di questo o quel magistrato meritevole della confidenza del presidente del Consiglio”. Manifestarono contrarietà i parlamentari comunisti, gli indipendenti di sinistra, e i demoproletari. Luciano Violante ritenne che vi fossero altre possibilità per controllare i mafiosi senza rimetterli in carcere ed aggiunse che si teneva “la commissione sotto il ricatto della scarcerazione di pericolosi criminali. Respingiamo questo ricatto”. Andreotti difese il provvedimento pur ammettendo qualche forzatura sui “princìpi perché, di fronte ad un reo confesso di omicidi […]”, affermò, “faccio una certa fatica a considerarlo presunto innocente”.

Il maxi processo fu accompagnato da un clima politico favorevole anche in Sicilia, rispondendo all’auspicio di Falcone, per il quale era arrivato “il momento che tutte le forze politiche dello Stato, ma soprattutto della Regione procedessero con coerenza nell’ambito delle rispettive competenze”. Il magistrato era pienamente consapevole che per concludere positivamente una iniziativa giudiziaria di quelle dimensioni, era necessario avere il favore e il sostegno delle istituzioni e della società. Al momento dello svolgimento del maxi processo, esisteva una condizione di stabilità, di relativa concordia e di collaborazione, almeno sulle questioni più rilevanti, tra le maggiori forze sindacali e politiche. La Democrazia cristiana di Mannino, con Nicolosi alla presidenza della giunta di governo, il Partito socialista di Nino Buttitta e il Partito comunista di Luigi Colajanni, assicuravano un quadro di solidità al quale si aggiungevano le scelte di rinnovamento del partito di maggioranza. A Palermo Sergio Mattarella e a Catania Calogero Lo Giudice erano i commissari della DC ed Orlando guidava la giunta del capoluogo in nome del quale si costituì parte civile per “avere riparato il danno subìto dalla comunità nell’immagine e nella crescita culturale ed economica”.

Con la Chiesa di Pappalardo schierata contro la mafia e l’impegno sullo stesso terreno delle organizzazioni sindacali e della cultura, Palermo non era più la “palude” che, scrivevano alcuni importanti giornali, sterilizzava e inghiottiva tutto e che, di conseguenza, avrebbe fagocitato anche il maxi processo.

Malgrado le durissime condanne del primo grado di giudizio, i mafiosi restarono convinti che tutto si sarebbe aggiustato. Era inevitabile, ritennero, che si fosse ceduto alla piazza e alla opinione pubblica nazionale. Poi qualcuno sarebbe intervenuto, come aveva promesso e, comunque, come era costretto a fare, per “aggiustare” le cose. A Palermo c’era Lima. A Roma c’erano il giudice Corrado Carnevale, “ammazzasentenze”, e “lo zio Giulio”. Loro avrebbero garantito che la costruzione di Falcone, di Borsellino e dei giudici di primo grado sarebbe stata smontata dalla Cassazione e, malgrado il governo presieduto dallo “zio Giulio” continuasse a proporre e a rendere operativi numerosi provvedimenti contro la mafia, non veniva meno la speranza di contare su di lui. O forse questa restava il refrain che i capi, magari senza più crederci, continuavano a ripetere per accreditare il loro potere e le loro relazioni nei confronti dei “picciotti”. I cugini Salvo sostenevano di avere o millantavano un rapporto stretto con Andreotti e facevano credere a Riina e soci di potere intervenire su di lui. Ignazio Salvo, dichiarò alcuni anni dopo Giovanni Brusca, fingeva di parlare con Andreotti per tentare di calmare il capo di Cosa nostra. Quando, infine, la Cassazione decise di non affidare tutti i processi di mafia a Carnevale, ma ai presidenti di sezione con un criterio di rotazione, crollò l’ultima illusione e la sentenza pose una pietra tombale sui veri o presunti rapporti politici dai quali ottenere tutele e sulla speranza di sfuggire alla galera a vita. L’impegno dello Stato questa volta era risultato più fermo, disse Falcone, e la Sicilia non era più “il cortile di casa della mafia”. La mafia scelse di attaccare le istituzioni per costringerle ad abbandonare lo scontro e avviare una trattativa. Essa mise in atto la vendetta nei confronti di chi – Lima – era stato individuato come il referente che non aveva voluto o potuto garantire la criminalità organizzata e di Falcone e Borsellino che la avevano sfidata e portata in giudizio.

Paolo Borsellino, dopo Falcone, e per le stesse ragioni di Falcone, pagò il conto della sfida.

Il conto con coloro che hanno aggrovigliato i fili delle indagini, collocandoli su binari errati, rimane ancora aperto. Può darsi che i responsabili del depistaggio siano stati tre o quattro sfigati poliziotti, smarriti senza saperlo dentro vicende più grandi di loro. O può darsi, come dice Fiammetta Borsellino dopo la decisione del gip di Messina che scagiona i due ex pubblici ministeri di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che “tutto è in linea con il principio che cane non mangia cane”.

Per questa e per tante altre vicende, con la giustizia in Sicilia e in Italia, da molti anni, abbiamo un problema.