L’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, non ha mai condiviso né accettato le conclusioni di Claudio Fava e della commissione regionale Antimafia dell’Ars, sul presunto attentato che lo riguarda. All’indomani della relazione di oltre cento pagine, sviluppata attorno a 23 audizioni e a un lavoro “lungo e faticoso”, ha espresso il proprio punto di vista senza fronzoli, spiegando che la commissione “ha prestato il fianco al mascariamento e alla delegittimazione, utilizzando audizioni di soggetti che non citano mai le loro fonti bensì il sentito dire o esposti anonimi che la magistratura, dopo attenta valutazione e trattazione, ha dichiarato essere calunniosi”. Antoci, che la notte fra il 16 e 17 maggio 2016 subì l’assalto di un commando mentre da Cesarò tornava a Santo Stefano di Camastra, è convinto dell’inefficacia del metodo investigativo dell’Antimafia tanto quanto lo è Fava rispetto a quello utilizzato dagli investigatori “ufficiali”, ossia le forze dell’ordine, nel ricostruire i  fatti di quella notte: “E’ abbastanza inconsueto – fu il concetto ribadito da Fava ai giornalisti – che di fronte a un’ipotesi stragista di questo tipo, per fortuna mancata, si attivino la squadra mobile di Messina e il commissariato di Sant’Agata di Militello. E come se dopo l’attentato fallito all’Addaura a Falcone fosse stato incaricato delle indagini il commissariato di Mondello”.

Assieme ad alcuni super consulenti (l’ex direttore della Dia Tuccio Pappalardo e l’ex presidente del Tribunale di Catania, Bruno Di Marco) la commissione Antimafia è giunta alla conclusione che l’attentato di mafia è meno plausibile delle altre due piste battute: l’intimidazione e la messinscena. “Ci sono molte anomalie e contraddizioni – esordisce Fava – e molte domande rimaste senza risposta. Sul piano delle testimonianze raccolte, abbiamo ritenuto di dover continuare a fornire inalterate le tre ipotesi: l’attentato mafioso; l’attentato non destinato a uccidere, ma ad avvertire o far ricadere la colpa su altri; e quello della simulazione a beneficio di chi l’aveva organizzata. Non abbiamo detto che quest’ultima ipotesi è la più plausibile, ma che l’attentato mafioso è la meno plausibile”.

Perché, secondo lei, Antoci non accetta l’ipotesi della messinscena?

“Se il signor Antoci dovesse apprendere che questo attentato è stato simulato da qualcuno per il suo interesse o la sua carriera, lui e la sua famiglia dovrebbero sentirsi sollevati, sapendo che nessuno voleva ammazzarlo. E non mascariati. L’uso di questo termine mi sembra isterico, offensivo e abbastanza incomprensibile. Una sorta di rifiuto, da parte dell’idolo di turno, a scendere dal piedistallo”.

Cosa vuol dire?

“C’è una lettura emotiva e superficiale delle cose accadute in questi anni. Cioè l’idea che subire un attentato o una minaccia sia un viatico per la santità e che chiunque metta in dubbio che quelle minacce ci possano essere state, riduca la dignità della persona. Non è così. Noi abbiamo scritto che il lavoro di Antoci è stato eccellente. Ma che l’attentato mafioso ci sembra l’ipotesi meno probabile”.

Antoci ha affermato che la relazione dell’Antimafia poggi su troppi “sentito dire”.

“Che il signor Antoci si permetta di dire che questa relazione sia stata costruita sugli “anonimi” e sui “si dice” è ridicolo e offensivo. Non ci sono “anonimi” e non esistono “si dice”. Le cose dette hanno un nome e un cognome. Dei 23 auditi almeno 21 testimoniano la ricostruzione dei fatti: quindi non c’era nessun pregiudizio, nessuna ipotesi preconcetta”.

Perché qualcuno dovrebbe fingere un attentato?

“Se questa dovesse essere la soluzione giudiziariamente accertata, ammesso che si arrivi a una sentenza, non sarebbe l’unico episodio in cui sono stati fabbricati attentati, rischi e pericoli a beneficio di talune carriere. E’ una pratica molto utilizzata negli ultimi anni in Sicilia. Qualcuno si scriveva le lettere di minaccia da solo. Ed era convinto che ricevere una minaccia, anche se falsa, diventava garanzia di impunità. Montante su questo è stato maestro, ma ha avuto molti discepoli”.

Parlando di “mascariamento”, Antoci si è paragonato a suo padre. C’è rimasto male?

“Ogni volta che sento tirare fuori il nome di mio padre da qualcuno che vuole fare polemica nei miei confronti, mi rendo conto che c’è una linea che tiene insieme culture mafiose e antimafiose, e quando non si hanno argomenti cercano di farti del male evocando i tuoi familiari. E’ una cosa di rara e straordinaria volgarità. Lo ha fatto qualche mese fa l’ex presidente Lombardo, reagendo in modo isterico e offensivo alla nostra relazione sul caso Montante, lo fa oggi Antoci, lo hanno fatto in passato altri personaggi che volevano mandare segnali ostili. Prendo atto che le vie della volgarità, per fortuna, sono finite: sono poche e sempre le stesse. Prevedibili ma allo stesso tempo assai discutibili”.

Ha citato prima Montante. Cosa pensa delle motivazioni del giudice Luparello sulla condanna a 14 anni inflitta in primo grado all’ex leader di Sicindustria?

“Premesso che non ho letto alcun commento preoccupato da parte degli amici di Montante, da Crocetta a Lumia, la sentenza racconta di una Sicilia tragica, devastata dal malaffare, dalla menzogna. L’ansia dell’idolatria, il bisogno di edificazione in vita, la necessità di fare dell’antimafia la garanzia della propria impunità. E’ una fotografia attenta e spietata, utile a capire cosa abbia rappresentato un pezzo della cultura antimafiosa in Sicilia. Penso che questa sentenza rappresenti un cambio di passo e nessuno, da questo momento, potrà fingere che di fronte alla parola antimafia occorra mettersi sull’attenti e con la mano sul cuore. E che forse alcune cose accadute in questi anni, che hanno portato a fabbricare idoli imperscrutabili e indiscutibili, di cartapesta, vadano rilette e rivalutate alla luce della storia che c’è appena stata raccontata”.

Secondo la procura nazionale Antimafia Giovanni Brusca, che azionò l’esplosivo contro Giovanni Falcone, si sarebbe ravveduto e per questo avrebbe meritato i domiciliari. La Cassazione glieli ha negati. Lei con chi si schiera?

“Il problema non è il pentimento. Non mi interessa che questa gente si penta, né considero la gestione dei collaboratori di giustizia un fatto privato dei parenti delle vittime. L’idea privatista della giustizia mi pare qualcosa di malato. Detto questo, il problema di Brusca non è quanti ne abbia ammazzati. Ma la mia percezione, da giornalista e lettore delle cose, è che abbia utilizzato molti tatticismi nella propria collaborazione con lo Stato, decidendo di dire, di non dire, di dire in parte, di tornare sui propri passi. Lo considero un collaboratore di giustizia piuttosto precario, quindi sono d’accordo con la sentenza della Cassazione”.

Non crede al ravvedimento dei mafiosi?

“Il mafioso è un essere umano come gli altri. C’è chi è convinto che la propria missione fosse quella di esercitare il potere distribuendo morte e dolore, penso a Riina e Provenzano, i quali hanno fatto della scelta di non collaborare una sorta di legittimità shakespeariana, come Macbeth, nella solitudine del proprio comando e del proprio trono. Altri, e ne ho anche conosciuti, magari meno in vista, si sono davvero ravveduti. Ma non esiste una regola: ognuno deve vedersela con se stesso”.

La Corte dei Diritti dell’uomo, invece, ha bocciato sonoramente l’applicazione dell’ergastolo ostativo da parte dello Stato italiano. Il “fine pena mai” è inumano. Concorda?

“Io credo che la sentenza della Cedu si muova tenendo conto dei principi fondativi del diritto. E in questo è inappuntabile. Noi potremmo dire: ‘voi non sapete cosa è la mafia e quindi fate sentenze generiche’. Oppure: ‘noi vogliamo applicare la pena di morte perché la mafia è qualcosa di straordinariamente feroce e pericoloso e voi non potete impedircelo perché non sapete i danni che ha fatto’. Siccome pensiamo che il principio del rispetto e della tutela della vita umana vada mantenuto anche nei confronti dei criminali, un ragionamento di questo tipo non lo facciamo. Però non possiamo permettercelo nemmeno nei confronti dell’ergastolo ostativo. Secondo me, togliere il diritto alla speranza di un beneficio a un detenuto è una misura che ha dentro di sé un principio di oggettiva crudeltà anche se le intenzioni sono diverse”.

A quali intenzioni si riferisce?

“Lo Stato ha sempre agito in autodifesa perché, rispetto alla capacità di continuare a gestire il potere da parte di alcuni personaggi, non riesce a tutelarsi in altro modo. Per cui da una parte ha un sistema carcerario particolarmente duro come quello del 41-bis, dall’altro l’ergastolo ostativo. Mi auguro che si riesca a superare entrambi: non come affermazione di un principio morale, ma della forza dello Stato nei confronti della criminalità organizzata. Nel giorno in cui non avremo più bisogno di negare per 23 ore l’apertura della cella a un detenuto, vorrà dire che non abbiamo più paura, che siamo stati in condizioni di vincere, come qualità della pena e qualità della giustizia, la nostra battaglia civile contro le organizzazioni criminali. E che l’universo carcerario è sufficientemente sicuro, impermeabile, in grado di evitare che i post mafiosi continuino a fare i post mafiosi”.

E se questa condizione non dovesse maturare?

“Se lo Stato non dovesse trovare questa forza, rimettere un capomafia nel circuito carcerario normale vorrà dire rimetterlo nelle condizioni di continuare a esercitare la propria condizione di capo. Questa è la ragione per cui mi sono battuto, negli anni scorsi, rispetto alla scelta di rimettere nel circuito carcerario normale Aldo Ercolano, che è considerato il numero di Cosa Nostra della Sicilia Orientale. Il giorno in cui saremo nelle condizioni di non avere più nessuno al 41 bis, o condannati all’ergastolo ostativo, questo Paese avrà recuperato non tanto la dignità, ma la forza e l’autorevolezza del diritto”.

Su cosa è concentrata adesso l’attenzione della commissione Antimafia? Riaprirete le audizioni sullo scandalo di Sicilia Patrimonio Immobiliare?

“Abbiamo un calendario dei lavori massacrante. Parleremo dello scandalo con l’ex presidente della Regione Cuffaro, che audiremo per parlare anche di altro. Abbiamo aperto un’indagine sui rifiuti che prevede di ascoltare tutti i dirigenti generali, gli assessori e i presidenti di Regione che si sono succeduti nel tempo, oltre ai comitati civici e ai sindaci delle zone più interessate. Abbiamo chiesto a tutti i comuni siciliani di indicarci a chi è stato affidato il servizio di raccolta dei rifiuti, attraverso quale procedura (se una gara d’appalto o un affidamento d’urgenza), se ci sono state proroghe nel corso degli anni e quali sono stati gli importi. Vogliamo realizzare un censimento vero e proprio di quello che considero il business più oscuro e tragico della Sicilia, che ha garantito carriere, poteri, incassi, e deciso le sorti di governi e campagne elettorali. Ma continueremo a parlare anche del censimento degli immobili”.