È probabile che non abbiano riflettuto sul significato delle parole, che non si siano resi conto del loro tragico peso, che le abbiano pronunciate con leggerezza, come si fa, a volte, tra persone che lavorano insieme, stressate dall’impegno gravoso che affrontano giorno per giorno. Per mesi hanno cercato di apparire efficienti, hanno provato ad offrire alla Giunta argomenti per respingere le ripetute polemiche delle opposizioni, per rivendicare gli ottimi risultati raggiunti e mettere, perfino, sotto accusa il governo nazionale. Immaginavano, ridipingendo arbitrariamente una tragica realtà, di preservare la Sicilia dalla collocazione nella zona rossa. Ma le parole spesso assumono un valore che va al di là della volontà di chi le pronuncia, del loro stesso senso letterale. A volte diventano di per sé oscene. E in effetti c’è qualcosa di sconcio nello scambio verbale intercettato tra l’assessore e la dirigente regionale alla sanità. Tentavano, come scrivono gli inquirenti, di dare un’immagine “della tenuta e dell’efficienza del servizio sanitario regionale, della classe politica che amministra migliore di quella reale e di evitare il passaggio dell’intera Regione o di alcune sue aree in zona arancione o rossa, con tutto quel che ne discende in termini di consenso elettorale”.

Per questo, più volte sono stati falsificati i dati della diffusione del virus, dei ricoveri in ospedale e dei decessi. Le responsabilità politiche sono molto gravi, suscitano pesanti rilievi e richiamano l’attenzione di tutta l’opinione pubblica nazionale. Gli aspetti penali saranno accertati dalla magistratura e, nell’attesa, è opportuno evitare di anticipare i giudizi. Sugli aspetti politici e giudiziari prevale ed incombe, comunque, quello fastidiosamente indegno, terribilmente laido delle parole pronunciate e questo, senza attendere neppure un attimo, provoca indignazione totale, spinge ad una condanna morale senza appello, induce a denunciare la violazione delle più elementari ragioni di umanità. Quelle parole richiamano le immagini delle epidemie dei secoli passati, riecheggiano pagine tragiche di letteratura, riportano al carro dei monatti, riannodano un filo che risale a Boccaccio, all’orrore descritto da Edgar Allan Poe ne “La maschera della morte rossa”, alla peste bubbonica del 1600 raccontata da Defoe, sino a Camus e a Saramago.

C’è il richiamo, quanto si vuole involontario e tuttavia forte, della rappresentazione desolante della morte in alcune opere di Caravaggio, di Gericault e di Poussin.

Affiora tra le cose sentite quasi la percezione olfattiva della “corruzione” di corpi che “sono di tre giorni fa”, che non si possono “tenere sulla pancia”, anche perché “sono costanti, sono costanti”. Tuttavia la contabilità si può sistemare prima di tirare la somma per evitare di pagare il dovuto con una pesante colorazione dell’Isola e gli inevitabili riflessi economici e con il rischio di provocare un giudizio negativo sulla idoneità politica di chi governa. L’algebra, così, prende il posto della pietà e della stessa ragione. I morti possono essere “spalmati”. Del resto sono morti di poco conto, sono ciò che resta dei vecchi, dei loro corpi inanimati e sconciati che diventano solo realtà materiale, addirittura qualcosa di pastoso. Da quelle frasi risalta l’aspetto più tragico di un dramma collettivo, viene raffigurato un morbo che si diffonde e uccide e prima di uccidere lascia in una disperante solitudine chi ne viene colpito, e chi ne viene colpito può essere raccontato come un numero collocato in una pagina o nell’altra di un freddo rendiconto.

La pandemia può generare paura, compassione e solidarietà, ma può anche ridurre una drammatica vicenda al livello di una banale pratica burocratica, ad un insieme di “carte” che, per evaderle, possono essere “spalmate” in più giorni di lavoro. Del resto quelle persone sono morte nel più assoluto anonimato, quasi come soldati caduti in lontani campi di battaglia, senza una carezza, senza nome e solo un numero di matricola per individuarli. Il poeta inglese William Thackeray in una poesia sulla morte del famoso giovane Werther di goethiana memoria scriveva:
“Lo vide Carlotta che caldo era ancora,
si terse una stilla dal bell’occhio azzurro;
e poi, volta a casa (la brava ragazza)
riprese a spalmare nel pane il suo burro”.

Se si può essere indifferenti fino al cinismo di fronte alla morte di un giovane, più facile può esserlo di fronte a quella dei vecchi, delle persone fragili, a rischio, che oltre a intasare gli ospedali e le terapie intensive, creano problemi all’economia e al buon nome di chi governa.