La Rai ha raccontato la sua vita in un film, andato in onda qualche giorno fa, intitolato “Tutto il giorno davanti”. Così l’Italia ha avuto modo di apprezzare la rara sensibilità di Agnese Ciulla, ex assessore alla Cittadinanza sociale del Comune di Palermo, divenuta tutrice legale di centinaia di minori non accompagnati. Anche il Coronavirus è un’emergenza che nella sua accezione più spiccatamente sociale riguarda gli ultimi della classe. E la Ciulla non si tira indietro quando le chiediamo di fare due chiacchiere, per capire come il mondo della politica, dell’economia e dell’associazionismo si pone nei confronti di chi – continuamente – vaga in cerca di qualcosa: una dimora o dei diritti, fa poca differenza.

Agnese collabora con la Federazione Italiana Organismi Persone Senza Dimora (Fiopsd) e in queste ore è in contatto con chi l’emergenza, sul campo, sta provando a gestirla fra mille difficoltà: “Ho sentito alcuni operatori di Bergamo – una delle città più provate dal Covid-19 – e mi hanno detto che il problema non sono i soldi: ma trovare le forze e le energie per essere presenti, e contrastare la situazione. Tante fasce della popolazione stanno soffrendo: le persone sole, che sono a casa e non sanno come muoversi; quelli che entreranno in cassa integrazione; e poi, soprattutto al Sud, c’è un tema fortissimo che riguarda le famiglie che vivono alla giornata, con un lavoro in nero. Temo che in questa fase si possa incrementare la logica dell’assistenzialismo”.

La sindaca di Roma, Virginia Raggi, si è detta dispiaciuta anche per loro. “Brutto dirlo, ma sono vicina alle persone che stavano facendo un lavoro in nero, e si sono ritrovate senza”. Concorda?

“Il problema non è essere dispiaciuti se qualcuno ha perso il lavoro in nero. Nell’emergenza c’è la tendenza a giustificare – sempre – gli errori. Quindi dovremmo fare uno sforzo e dire: usciamo dall’emergenza ed entriamo nella quotidianità. Che faremo quando l’emergenza, fra due, tre o cinque mesi, sarà finita? Continueremo a subirla? Una volta che ci siamo preoccupati, dispiaciuti e disperati, bisogna cominciare a governarla”.

Come?

“Da domattina comincerei a ragionare di azioni e di persone. Il vero problema è che di fronte al bisogno di senso civico, più volte manifestato in questi giorni, molti non ce l’hanno. Cominciamo dai percorsi educativi. Da qui a cinquant’anni, cosa vuole fare e dove vuole andare l’Italia?”.

Ci faccia un esempio pratico. Lei cosa farebbe?

“Farei una riflessione generale su quali possono essere le leve di sviluppo consapevoli di questo Paese. Le comunità sono fragili: in tema di strutture organizzative, di riconoscimento di diritti… Oggi ci sentiamo in difficoltà perché su 60 milioni di abitanti, 40 mila persone sono malate. Significa che il Paese non è solido nel riconoscimento dei diritti alla sanità e alla salute, innanzitutto. Ma questo, a cascata, è l’indicatore di una situazione più generale: a partire dal lavoro, dall’occupazione. Bisogna capire su cosa abbiamo investito e su cosa dobbiamo ancora investire”.

L’emergenza come occasione di rilancio?

“Tutto quello che abbiamo fatto finora è servito ad amministrare in emergenza. Noi ci muoviamo e siamo attivi nell’emergenza, ma non riusciamo ad avere una visione di sviluppo nelle nostre comunità. Coinvolgiamo anche l’Europa”.

Faccia lei un paio di proposte.

“La prima – l’abbiamo già fatto come federazione – è chiedere all’Unione Europa di soddisfare il bisogno più impellente: trovare le soluzioni migliori per evitare che le persone non si sentano sicure. Se noi entriamo in un meccanismo non solo di paura, ma anche di insicurezza –  il timore che non si possa mangiare o non ci si possa curare – si crea una lotta pazzesca nelle città. L’Europa, per prima cosa, deve rassicurare e lo può fare muovendo risorse rispetto agli interventi previsti dall’attuale programmazione comunitaria. Bisogna dare sicurezza alle famiglie e alle persone sole che oggi si ritrovano a dire ‘che ne sarà di me?’”.

La seconda?

“Capire bene, da domani, quali investimenti fare sulla salute mentale, sull’accompagnamento. E’ come se fossimo tutti reduci da un danno psicologico potentissimo. Questo livello non attiene solo l’Ue, ma anche ai governi che programmano le risorse locali e regionali. Il diritto alla casa, ad esempio, oggi crea una importante percezione di sicurezza. E su quello bisogna investire”.

Nel momento in cui a tutti si chiede di rimanere a casa, come si comportano i senzatetto? In molti hanno posto la questione.

“Con la Fiopsd, in tutta Italia, stiamo accompagnando e ascoltando i territori per capire cosa accade. Le persone senza dimora, di giorno, chiedono di non uscire dai dormitori. Paradossalmente c’è una richiesta di accoglienza, perché sanno che è una cosa ancora più complessa del vivere in strada e basta. I territori si stanno organizzando lasciando aperti i diurni aperti, offrendo la possibilità di pasti e assistenza quotidiana. Il tema ricorrente – così come per i medici – è che mancano dappertutto i presidi e i dispositivi di sicurezza per gli operatori sociali. Mentre in ospedale la situazione è più controllabile, nei posti in cui la gente arriva dalla strada è complicatissimo. Molti territori, ad esempio nelle Marche, hanno chiuso una serie di servizi: nel senso che le persone sono rimaste chiuse dentro, non entra e non esce nessuno. Ma chi è in strada rischia di rimanere in strada”.

Anche il tema dei migranti si è ridimensionato.

“Sembra quasi che non ce ne siano più. Dove sono? Eppure, sappiamo che l’accesso ai servizi – come la mensa e il pranzo d’asporto – viene richiesto. In strada continuano a esserci tante persone, ma il tema reale è trovare gli spazi per accoglierli”.

Anche i minori si trovano in una situazione del tutto nuova con le scuole chiuse.

“E qui torna il tema degli investimenti e dei percorsi educativi. Oggi parliamo di lezioni da casa, ma a Palermo quanti ragazzini hanno internet e un pc dedicato? Forse soltanto da un certo livello in su. Ma molto spesso le famiglie, nelle nostre città e nelle nostre periferie, hanno il cellulare collegato con la tariffa a minuti, quindi tantissimi bambini non possono studiare a distanza. Significa che già in questa fase stiamo segnando una differenza tra chi può fare delle cose e chi no. Io posso chiedere alle persone responsabilità, ma devo capire come dargli tutti gli strumenti per essere responsabili. Il discorso vale per gli adulti e anche per i bambini”.

I palermitani, secondo lei, hanno capito il senso della profilassi? Sono una comunità responsabile?

“In generale, credo di sì. Percepisco un’attenzione da parte delle persone, anche se ci sarà sempre – ma non riguarda solo Palermo – qualcuno che fa di testa propria. Comunque, non bisogna fermarsi in superficie: occorre capire cosa significa prevenzione, il senso di mettere una mascherina, di stare distanti. Il tema è sempre quello: stare in una casa comoda è facile. Ma l’emergenza può acuire le difficoltà. Per questo, a partire da domani, bisogna governarla e non più subirla”.