Nel secondo trimestre del 2020, i mesi della pandemia, sono andati in fumo 76 mila posti di lavoro. Si tratta, per lo più, di contratti a termine, legati al mondo dei servizi o del turismo. La cosa drammatica – ma questa è una tendenza – è che oltre il 50% dei siciliani un lavoro ha smesso di cercarlo. Il popolo degli “inattivi” supera di gran lunga quello degli occupati. Ma in questo caso il Coronavirus c’entra poco. “Anche i dati pre-Covid, infatti, erano la dimostrazione di un tessuto economico debole”, spiega Alfio Mannino, segretario regionale della Cgil. Che però solleva un’altra questione: “L’Istat, nei mesi scorsi, ci aveva detto che rispetto al resto d’Italia, in Sicilia c’è il 5% in più di lavoro nero. Questo dà il senso della fragilità strutturale del nostro sistema produttivo”.

Cosa emerge dai dati dell’ultimo trimestre forniti dall’Istat?

“Almeno un paio di cose. La prima è che sono saltati i contratti a tempo determinato, soprattutto quelli che riguardano giovani e donne. La seconda è che risultano tuttora occupati molti lavoratori coperti da ammortizzatori sociali: circa 250 mila persone su 1,3 milioni. Questo è un dato preoccupante: nel momento in cui, fra un mese, finirà la cassa integrazione o verrà sospeso il blocco dei licenziamenti, potrebbe aggravarsi ulteriormente. Tra qualche mese avremo dati ancora più veritieri sugli effetti drammatici del Covid”.

L’agricoltura è uno dei settori che, a parte rare eccezioni, durante il Covid ha resistito. Eppure si sono persi posti anche lì.

“E’ vero che l’agricoltura è andata bene. Ma il lockdown ha reso impossibile l’attivazione di nuovi contratti. E’ mancata buona parte della manodopera stagionale garantita dagli immigrati. A Cassibile, giusto per fare un esempio, lavorano ogni anno 3.500 persone, stavolta ci siamo fermati a un migliaio. Anche in questo settore – uno dei più falcidiati dal “nero” – c’è una evidente contrazione”

Con questa platea di inoccupati non basteranno tutti i sussidi di questo mondo. Che impatto ha avuto in Sicilia il reddito di cittadinanza?

“Ha avuto un impatto. Ma non possiamo pensare di fare sopravvivere l’economia dell’Isola puntando sul reddito di cittadinanza, che invece dovrebbe essere soltanto una protezione sociale. Abbiamo l’assoluta necessità di rilanciare gli investimenti e aggredire le criticità del nostro sistema produttivo. Il mio auspicio è che il ceto politico siciliano – fin qui non è accaduto – comprenda la profondità della crisi. Il Recovery Fund è l’ultima chiamata se vogliamo costruire un nuovo modello produttivo”.

Ma i tempi sono lunghissimi…

“Sono risorse che potremo spendere, se tutto va bene, nella seconda metà dell’anno prossimo. Ma nel frattempo potremmo sopperire”.

Come?

“A inizio pandemia, l’Unione europea ha deregolamentato il sistema di utilizzo dei fondi strutturali. Siccome la Regione siciliana ha una buona fetta di residui da utilizzare, è il caso che cominci a fare degli investimenti seri. Se, però, penso che nessuna delle misure dell’ultima Finanziaria è stata attuata, non sono molto fiducioso… Da un lato abbiamo una Regione che ha le risorse e non riesce a spenderle; dall’altro c’è il Recovery, a cui non potremo attingere prima del 2021. Nei prossimi 8-9 mesi c’è il rischio che la Sicilia salti in aria”.

Quella Finanziaria, sebbene corposa, potrà garantire risorse e liquidità che – comunque – rappresentano una goccia nell’oceano. Imprese e lavoratori non meritano un altro tipo di sostegno?

“Assolutamente sì. Infatti il problema non è il miliardo e quattrocentomila euro della Finanziaria. Ma i residui dei fondi strutturali. Dai calcoli della Cgil ci sono tre miliardi che si possono utilizzare subito. Andrebbero spesi su alcuni assi strategici: istruzione, sanità, ma soprattutto turismo, che è il settore più falcidiato dalla pandemia. Su 14 milioni di presenze turistiche, il 75% si concentra nei mesi di luglio e agosto. Abbiamo un patrimonio naturalistico e paesaggistico immenso, e tutte le condizioni per destagionalizzare la nostra offerta. L’Istat ci dice che è quello il comparto in cui si sono persi più posti di lavoro. Servirebbe un piano strategico e un pieno di risorse per fare in modo di richiamare i turisti già a partire dai prossimi mesi. Mi consenta, infine, un’altra valutazione…”.

Prego.

“Al netto delle colpe del governo nazionale, qualche settimana fa è stato concesso alla Regione di trattenere poco meno di 800 milioni di euro dalla compartecipazione annuale alla finanza pubblica. Quelle somme, che dovevano essere liberate per contrastare gli effetti della pandemia, in realtà serviranno a coprire i buchi di bilancio che continuano ad emergere”.

Quindi cosa suggerisce al governo Musumeci?

“Di evitare le polemiche inutili e avviare un’interlocuzione col governo nazionale. Su cose serie, però. Negli ultimi anni l’esecutivo ha scritto Finanziarie per 102 miliardi di euro, ma al Mezzogiorno sono arrivate risorse per il 27%, contravvenendo alla clausola del 34%. Alla Sicilia sono mancati due miliardi. E’ questa la battaglia da fare, piuttosto che parlare di immigrati, e alimentare polemiche sulle Zes o su chi deve inaugurare un’opera pubblica. Bisogna accendere i riflettori sulla fragilità economica della Sicilia. Bisogna rivendicare la clausola del 34% e fare lo stesso nel momento in cui verranno ripartite le somme del Recovery Fund: dovrebbero toccarci 10 miliardi circa. Non possiamo perdere un’altra possibilità”.

E’ ottimista?

“Il dialogo col Ministero dell’Economia è già cominciato. Ma nelle prossime ore usciranno le linee strategiche ed entro la fine dell’anno dovranno essere presentati i progetti. Non conosciamo ancora quali proposte verranno messe in campo dalla Regione per rafforzare la nostra competitività”.

Musumeci ha definito “grattapancisti” l’80% dei dipendenti regionali. E’ stata la polemica dell’estate. Che idea s’è fatto? Soprattutto alla luce dell’esigenza, adesso espressa pure dal governo, di riformare la pubblica amministrazione.

“La Regione ha necessità e urgenza di rigenerare la propria burocrazia. Se non siamo riusciti a cogliere le opportunità che si sono presentate, non è solo colpa dell’inadeguatezza della classe politica, ma anche della classe dirigente che non sa affrontare le nuove sfide. Inoltre, non possiamo assumere “tanto per”. Occorre riqualificare il personale con forze fresche e competenze nuove. Il nostro apparato amministrativo è ancora figlio degli anni ’80…”.

Ci sono le condizioni?

“Intanto non c’è più il blocco del turnover. E poi sì, è il momento di agire: da un lato ci sono gli spazi finanziari e normativi per procedere alla stabilizzazione dei precari, dall’altro è necessario aprire a tutti quei giovani rimasti fuori dalla pubblica amministrazione. Servono i concorsi”.

Fra le occasioni perse – evidentemente perché gli strumenti a disposizione sono stati utilizzati male – ci sono quelle relative alla stabilizzazione degli ex Pip o dei dipendenti del Corpo Forestale. Non si riesce nemmeno a restringere le sacche del precariato.

“Le faccio un altro esempio. I duemila lavoratori dei comuni in dissesto sono ancora precari, benché la Regione si sia accollata ogni onere fino al 2038. Ma a causa della Legge Madia non si può procedere alla loro stabilizzazione. Basterebbe riaprire una interlocuzione con Roma e, più in generale, affrontare un ragionamento organico di riforma della pubblica amministrazione. Servono figure in grado di interpretare dove va l’economia di questo Paese. Se pensiamo di fare assunzioni solo per uscieri e dattilografi, la vedo male”.

Rinascente, a Palermo, è solo l’ultima di tante crisi aziendali. Che segnale è?

“Intanto occorre fare un distinguo: la crisi di Rinascente, a differenza di quanto accaduto con Auchan o Coop, non è dettata da problemi di vendite o fatturato. Ma da interessi che stanno dietro l’immobile di via Roma. Ciò non toglie che il Ministero alle Attività produttive e quello del Lavoro si facciano carico di questa vertenza per salvaguardare la posizione di 150 dipendenti. Potrebbero esserci ripercussioni ulteriori sull’occupazione femminile, di cui l’Istat ha già evidenziato le criticità. Detto questo, è in atto una crisi generale del modello degli “ipermercati”, che va da Lampedusa a Bolzano. Per superarla è necessario un processo di innovazione rivolto a un commercio di prossimità”.