Il presidente Musumeci non se la sente di fare promesse, tanto meno di prendere impegni. Ma ieri, nel corso della trasmissione “Casa Minutella”, pur ammettendo che i ristori della Regione “sono briciole” rispetto a quelli erogati dallo Stato, ha spiegato che il governo pensa a nuovi rifornimenti, destinando “qualche centinaio di milioni di fondi europei a piccole e medie imprese”. Non è dato sapere come e quando, ma la fame morde e l’orizzonte è cupo. Anche perché dei poderosi aiuti promessi da palazzo d’Orleans in funzione anti-Covid, pochissimi sono arrivati al traguardo: dai 125 milioni del Bonus Sicilia, che sono finiti nelle casse striminzite di 55 mila micro-imprese (per circa 2 mila euro a testa) dopo il fallimento del click-day; al piano di assistenza alimentare, che è stato erogato soltanto per il 30% della sua dotazione. Cioè 30 dei 100 milioni complessivi promessi da Musumeci durante il lockdown, in marzo, bruciando sul tempo l’iniziativa del governo centrale (400 milioni per tutta Italia). Peccato che non tutti i voucher, per alcune difficoltà di rendicontazione da parte dei Comuni, siano stati utilizzati.

Le procedure hanno ingarbugliato i buoni propositi. E oggi la Sicilia si ritrova a piangere miseria senza aver fatto nulla – almeno a livello politico – per evitarlo. Bonus Sicilia e buoni spesa, infatti, sono le uniche due misure attuate per davvero. Di tutte le altre non c’è traccia, bensì una semplice narrazione che si scontra con la lentezza dei burosauri nel pubblicare i bandi, e, dopo ancora, nel predisporre i mandati di pagamento. Una eterna e insopportabile paralisi.

Prendete il turismo. L’assessore Manlio Messina, nell’ultima Legge di Stabilità, era riuscito a ottenere 75 milioni per andare incontro a uno dei settori più colpiti. Li ha suddivisi in micro-avvisi che, ad oggi, risultano però sottoutilizzati. Al bando rivolto alle strutture ricettive, ad esempio, hanno partecipato solo 870 aziende su una platea di 7.300, per cui è prevista l’erogazione (in questa prima fase) di 11,8 milioni; quello per gli agenti di viaggio e i tour operator ha visto, invece, la partecipazione di 479 imprese (circa la metà di quelle che disponevano dei requisiti) per una “ricompensa” da 6 milioni. Più in basso tutti gli altri: dalle guide turistiche ai sub, dalle guide alpine al diving, passando per gli accompagnatori. La Regione acquista dei servizi dalle attività aderenti, e li rivende al turista sotto forma di benefici (ad esempio, regalando una notte in una struttura ricettiva in aggiunta alle due già prenotate). Ma poiché in questa fase il turismo è pressoché azzerato, il progetto “See Sicily” avrà validità fino al 2023 e i risultati si vedranno più avanti.

Ma è ora che la gente rischia di morire di fame. Ora o al massimo tra pochi mesi, quando lo sblocco dei licenziamenti potrebbe determinare altri posti lavoro bruciati, oltre alle decine di migliaia già andati in fumo. E nel frattempo la Regione non ha messo in azione la macchina infernale dell’ultima Legge di Stabilità, approvata il 2 maggio scorso all’Assemblea regionale e definita da molti una “Finanziaria di guerra”. Con le pallottole spuntate, però… I soldi con cui Musumeci e Armao avrebbero voluto imbandire la tavola dei ristori per fronteggiare la pandemia, infatti, non appartengono al Bilancio regionale: si tratta, al contrario, di fondi comunitari, spesso destinati agli investimenti, che il governo avrebbe dovuto riconvertire in “spesa corrente”. Spendibile subito. Ma non prima di aver ottenuto le necessarie autorizzazioni: l’ultima delle quali, da Roma. Dopo la prima delibera di riprogrammazione da 400 milioni, che ha avuto il “via libera” a settembre, Palazzo d’Orleans, a seguito di un’articolata ricognizione dei fondi, ha inviato una seconda proposta da 1,2 miliardi la seconda settimana di dicembre. Il Cipe, comitato interministeriale per la programmazione economica, ha dato il suo ok alla vigilia di Natale.

E’ trascorso quasi un mese, e da quel momento la Regione non ha messo un euro in tasca ai siciliani. Si aspettano i fondi per la pesca, per l’agricoltura, per i Comuni, per gli indigenti. Ma anche ulteriori prestiti per le famiglie e le imprese. Come ha ribadito più volte Patrizia Di Dio, presidente della sezione palermitana di Confcommercio, “il governo regionale chiede a Roma le misure di chiusura più estreme e fa una sua ordinanza. Ma lo stesso governo regionale non ha ancora rimborsato le imprese. Di tutte le risorse già previste nella finanziaria di aprile, a parte il bonus da 2.300 euro, le imprese costrette a chiudere per una gestione non efficace del contrasto alla pandemia, non hanno ancora visto nulla. Chiede, ordina, dispone. Ma lascia le imprese senza risorse”. Per non parlare degli operatori dello spettacolo. Perennemente in lockdown e dimenticati da tutti. Solo una manciata di giorni fa l’assessorato di Messina ha raschiato il fondo del barile e assegnato 5 milioni di euro a 222 soggetti “per sopperire alla perdita di incassi al botteghino o per la riduzione dei ricavi al netto di contributi da enti pubblici”. Il contributo maggiore va a Etnaland: poco più di un milione.

La situazione non accenna a sbloccarsi, e in questo periodo in cui la Regione avrebbe bisogno di iniettare liquidità – e ci riesce a malapena perché le regole della burocrazia non lasciano respirare – si trova a sottoscrivere un accordo con lo Stato che rischia di segnare per anni la sua capacità di spesa. Il negoziato con Roma, che Musumeci ha accolto come un tentativo di redenzione rispetto alle “gestioni allegre” del passato, in realtà è molto vincolante. Non tanto e non solo per le condizioni poste: dalla razionalizzazione delle partecipazioni societarie alla chiusura delle liquidazioni degli enti in dismissione; dal risparmio sulle locazioni passive alla riqualificazione della struttura amministrativa. Bensì per gli effetti che l’eventuale (e probabile) violazione di questi termini potrebbe produrre. Ossia la non validità dell’accordo stesso e la necessità di dover restituire quasi due miliardi – cioè l’ammontare del disavanzo con lo Stato – in tre anni anziché in dieci. Significherebbe il default, come ammesso l’altro giorno in conferenza stampa dall’assessore all’Economia, Gaetano Armao.

Questa eventualità, ancora prematura, avrebbe un effetto devastante sui prossimi governi e sulle future generazioni. Ma c’è un elemento che già preoccupa, ed è legato al giudizio di parifica del rendiconto 2019 da parte della Corte dei Conti. L’udienza, in programma il 29 gennaio, è propedeutica a sciogliere gli ultimi nodi con la Regione siciliana – ad esempio, la presenza di ulteriore disavanzo – e procedere con l’approvazione del Bilancio di previsione 2021-23 (l’esercizio provvisorio scade il 28 febbraio, e secondo il negoziato con Roma non è più prorogabile).

L’udienza di pre-parifica in programma lunedì scorso, però, è saltata perché la composizione del collegio delle Sezioni riunite è stata dichiarata “irregolare”. Pertanto i lavori subiranno uno slittamento, che potrebbe coinvolgere la parifica vera e propria. La pre-parifica è un momento cruciale in cui si instaura il contraddittorio fra la Regione e il procuratore generale della Corte dei Conti, e in cui si aprono i termini per la presentazione di memorie e controdeduzioni da parte di Palazzo d’Orleans. Il succo del discorso è che anche l’approvazione della prossima Finanziaria rischia di slittare in data successiva al 28 febbraio, aprendo così il primo squarcio sull’accordo con lo Stato.

Questioni che al momento sembrano distanti anni luce dalle prerogative dei siciliani, stritolati dagli effetti finanziari della pandemia. Ma che un domani, nemmeno troppo distante, rischiano di diventare la pietra tombale di questa terra di Sicilia. Sempre più povera e desolata.