Ha trovato sponda in Salvini su Fontanarossa; può contare sulla schermatura di Caruso per guidare in porto la zattera di Forza Italia; si appella al buon senso di Cuffaro per non perdere il contatto dalla realtà e non essere fagocitato dalla coalizione. Ma in questo primo anno – o quasi – di governo della Regione, Renato Schifani non è riuscito ad accaparrarsi le simpatie e il sostegno di molti politici influenti. Anche di levatura nazionale, come nel caso di Adolfo Urso: dopo un iniziale collaborazione, infausto fu l’incendio di Catania e le critiche del Ministro sulla gestione dell’emergenza e sui mancati interventi (decennali) nello scalo.

Si è parzialmente ricucito, invece, il rapporto con il segretario nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani: era cominciato sotto una cattiva stella, con la pretesa di Schifani di scalare il partito, almeno sul versante meridionale. Si è concluso con una passerella palermitana all’indomani degli incendi, la promessa di 400 assunzioni nel Corpo Forestale e gli elogi a Torrisi, l’amministratore delegato di Sac, per come ha gestito le fasi cruciali dell’emergenza che ancora oggi non ha esaurito i suoi effetti nefasti sulla mobilità siciliana. Scherzi del destino. Ma andiamo a vedere il borsino aggiornato dei nemici del governatore.

Adolfo Urso. E’ senza dubbio il bersaglio preferito. Il motivo? Impicciarsi troppo. E’ accaduto sulla ri-costituzione della Camera di Commercio del Sud-Est, che gioca un ruolo fondamentale per il controllo di Fontanarossa (Urso ha immediatamente “impugnato” la scelta della Regione di tornare allo schema del 2021, prima dell’abrogazione); ed è successo di nuovo, il mese scorso, dopo che un sovraccarico ha determinato l’incendio all’aeroporto ‘Bellini’, evidenziando le numerose magagne sia a livello infrastrutturale che di gestione. La richiesta di commissariamento della Sac, è stata interpretata da Schifani come un’ingerenza. Il governatore ha bollato le critiche di Urso come “polemiche sterili” e “a tutela di vicende localistiche”. Una guerra sotterranea di potere che ha varcato i limiti della continenza istituzionale e generato un cortocircuito coi patrioti: sull’aeroporto il presidente della Regione risponde solo a Salvini (e ogni tanto a Crosetto). Piccolo prequel: anche la pretesa di una “ricompensa economica” per la Regione, in cambio dell’utilizzo dei terreni (privati) per l’installazione di impianti fotovoltaici, aveva spiazzato Urso. E’ stato l’innesco di tutto.

Nello Musumeci. Col predecessore i rapporti si sono rovinati. Anche in questo caso per un’ingerenza: come fa il buon Nello a sostenere che alla Sicilia serve una società unica per la gestione degli aeroporti? E’ una tesi che va in conflitto con la beatificazione della Sac. Poteva farlo lui, e non c’è riuscito. Adesso pretende che ci pensano gli altri. Cioè Schifani. Che dopo aver evitato qualsiasi ringraziamento al Ministro della Protezione civile per lo spegnimento degli incendi, poco ci manca che non gli scarichi addosso tutte le responsabilità del passato. Intanto evita di incrociarlo.

Gianfranco Micciché. E’ il primo della lista dei nemici. Di diritto. Anche se sempre più marginale sulla scena politica – a causa delle note vicende di Villa Zito – l’ex commissario di Forza Italia è stata la prima vittima del “nuovo corso”. All’indomani delle elezioni andò a trattare con Schifani la spartizione degli incarichi, ma ottenne in cambio un due di picche. O meglio, uno sfregio. Il presidente, per la Sanità, scelse una figura di basso profilo e scarso gradimento: la “tecnica” Giovanna Volo. E’ stato l’inizio della fine, fra insulti sui giornali e dure reprimende in aula. Il mascariamento di Miccichè è proseguito a marzo, quando dopo aver tentato invano di ottenere la sua testa da Berlusconi, Schifani annunciò una diaspora da Forza Italia se il fido Gianfranco fosse rimasto alla guida del partito. Confinato al Gruppo Misto all’Ars, umiliato con la rinuncia ai suoi colleghi più cari, l’ex vicerè non ha più avuto occasioni di rivincita. Ha perso.

Marco Falcone. Ultimamente i pianeti si sono un po’ riallineati: Schifani e l’assessore all’Economia, già spogliato della delega alla Programmazione, sono comparsi insieme a Fontanarossa, in occasione dell’ultimo sopralluogo. E hanno sottoscritto entrambi alcune note di compiacimento: sul rating, sull’efficienza della Cuc, sulla proroga delle scadenze fiscali. Insomma, sembrano remare dalla stessa parte. Ma, più realisticamente, si tratta di una tregua armata, perché gli scontri si sono susseguiti in maniera repentina. In occasione della prima Finanziaria, infatti, il rapporto si è lacerato, fino a smontarsi come panna. La colpa di Falcone? Aver concesso ampi margini di manovra alle opposizioni. Da lì è stata una folle corsa verso il dirupo: le impugnative dello Stato, il commissariamento con Armao sui fondi extraregionali, lo scontro sulla riorganizzazione della Camera di Commercio del Sud-Est. E la competizione sulla giunta di Catania, dove Falcone ha dovuto rinunciare a un assessore – pur contando sulla forza dei numeri – per scongiurare una spaccatura plateale. Schifani, d’altronde, sta dalla parte del “nemico” D’Agostino.

Roberto Lagalla. Anche in questo caso, come per Falcone, negli ultimi giorni è stato necessario riannodare i fili del discorso per fronteggiare l’emergenza Bellolampo dopo gli incendi e la ‘bomba ambientale’ (la Regione ha concesso un milione di contributo). Ma la frattura è tutt’altro che ricomposta e risale al pressing esercitato nei mesi scorsi da Caruso, sul sindaco, per ottenere il rimpasto in giunta. Tramite il commissario di FI in Sicilia, Schifani ha disturbato più volte Lagalla per chiedergli di fare fuori gli assessori Mineo e Pennino, che nell’immaginario collettivo rappresentano “gli amici di Micciché”, e metterci qualcuno dei suoi (di amici). A cominciare dal fidatissimo Pietro Alongi, primo dei non eletti all’Ars. Lagalla, però, non sopporta le pressioni e i ricatti e fin qui ha respinto l’assedio al fortino.

Mimmo Turano. La giunta sarà pure unita, come si affanna a dimostrare. Ma la puzza di bruciato si avverte lontano un miglio. E tutto ha inizio dalla vicenda Trapani, dove l’assessore alla Formazione professionale non è riuscito a inculcare a un gruppo di amici la passione a prescindere, una forma di agnosticismo, per il centrodestra unito. Quelli sono andati con Tranchida, del Pd, e hanno contribuito alla sua vittoria alle ultime Amministrative. Per questo Schifani, già in campagna elettorale, aveva annunciato fuoco e fiamme nei confronti dell’esponente leghista. Ha dovuto rimangiarsi tutto per non inimicarsi Salvini e Sammartino: la Lega è la sua lettiga.

Francesco Scarpinato. Altra storia che viene da lontano. Pressappoco dalla vigilia dell’insediamento della giunta, quando l’allora consigliere comunale di Palermo, bocciato alle Regionali, ottenne l’investitura dall’alto e si impadronì del Turismo. Accolto con la puzza sotto il naso, la situazione peggiorò con i fatti di Cannes e con l’affidamento da 3,7 milioni alla Absolute Blue, in piena continuità amministrativa, per l’organizzazione di uno shooting fotografico. L’atto fu ritirato in autotutela dal presidente della Regione perché l’Avvocatura generale appurò che era necessario un bando. Scarpinato, salvato in corner dai patrioti romani (Messina e Lollobrigida), ottenne l’investitura ai Beni culturali. Pochi mesi dopo, però, l’ex ufficiale dell’Esercito andò a trattate con Cateno De Luca sull’emendamento Taormina: per poco non gli è costato l’esonero. Ma è una ruota…

Francesco Lollobrigida e Manlio Messina. L’uno, Ministro per le Politiche agricole. L’altro, vicecapogruppo di Fdi alla Camera dei Deputati. Tengono le redini di Fratelli d’Italia dalla Capitale. Non hanno preso bene le ingerenze di Schifani sul turismo, tanto meno il tentativo – respinto – di cacciare l’allievo prediletto (Scarpinato) dalla giunta. Messina si è persino concesso il lusso di affondare il governatore in tivù e non essere redarguito. Poi ha firmato la nota con cui ripudiava la gestione di Sac assieme al sindaco di Catania e ai parlamentari nazionali e regionali di FdI. Anche in questo caso: nessuna reazione.

Roberto Di Mauro e Raffaele Lombardo. Dopo aver valutato eccessivo l’investimento economico per i termovalorizzatori, l’assessore all’Energia ha segnalato alcune anomalie da sanare. Qualche giorno fa Schifani ha ritirato fuori il progetto, auspicando la pubblicazione del bando entro l’anno. Di Mauro l’ha avvertito che non è così semplice: prima bisogna riscrivere il piano regionale dei rifiuti, poi scegliere – eventualmente – dove mettere gli inceneritori. Il braccio destro di Lombardo, che si è messo di trasverso anche sulla rimodulazione di 100 milioni di fondi UE destinati al settore dei rifiuti, non fa sconti e ultimamente, alla partita, s’è iscritto anche l’ex governatore di Grammichele. Il quale non ha apprezzato la scarsa trasparenza adottata dal presidente della Regione sulla questione Sac. Avrebbe preferito un j’accuse e un briciolo di chiarezza in più. E’ arrivata solo una difesa corporativa (e immotivata). Occhio.

Gaetano Galvagno. Ha prestato il fianco a De Luca e alle opposizioni sul noto emendamento dei parchi archeologici. Ma nella notte di Taormina e dei lunghi coltelli, è a lui che Schifani si sarebbe rivolto per minacciare le dimissioni. I rapporti erano freddi già da prima. Da quando il giovane presidente dell’Assemblea fece notare a tutti che l’Ars si muove a scartamento ridotto perché “non c’è carne al fuoco” (l’osservazione è di un’attualità preoccupante). L’ultimo inghippo è sorto sull’utilizzo dei fondi europei. Galvagno ha chiesto a Schifani di occuparsene, l’altro l’ha ringraziato per il sollecito. Anche se forse non è rimasto contentissimo.

Cateno De Luca. Scateno ha trovato una modalità per pungere meglio che dai banchi dell’opposizione: diventare sindaco (e simbolo) di una città sovraesposta come Taormina. Ha minacciato di fargli chiudere il Teatro Antico (o comunque la via d’accesso), ha abbandonato la Fondazione TaoArte, gli imputa interessi privatistici e di stampo politico-mafioso (anche sulla gestione di Fontanarossa), stringe accordi con l’arcirivale Micciché. Serve altro?

Un capitolo a parte merita il parlamento. Da cui Schifani continua a fuggire: gli avevano chiesto di riferire sul turismo, e ha risposto che non era il momento; gli avevano chiesto di informarli sugli incendi e sulla mancata prevenzione, e ha risposto che non è ancora il momento. Non è mai il momento. All’ultimo giro i deputati d’opposizione, infuriati, si sono alzati e hanno abbandonato l’aula. Il “parlamentarista convinto” ha fatto un buco nell’acqua.