Chi sarà adesso il prossimo attore che comparirà in scena? Chi sta già sbirciando dietro le quinte in attesa del cono di luce che lo illumini sulla ribalta? Qualcuno magari recalcitra, altri non vedono l’ora, c’è chi vorrebbe rimanere nell’ombra della comparseria e chi già pregusta la prima battuta. Chi verrà a prendersi l’applauso di sortita, le lacrime, i sorrisi, i mormorii della rivelazione inedita, il battimani finale? La maestra delle elementari? Il parroco che insegnò il catechismo? La cameriera ai piani che fu collega in albergo? In morte di una scrittrice – e intellettuale, polemista, attivista e tutto il resto che è già stato etichettato – il teatro che ne sta venendo fuori ha qualcosa, più che di impudico, di superfluo, se non di superficiale. Peggio, di semplificante. E a semplificare la morte, ce ne vuole.

D’accordo, Michela Murgia ha voluto fare del suo finale di partita un atto politico. Ed era giusto, legittimo, consequenziale per come aveva vissuto e scritto, che fosse così. Era quasi sacrosanto voler comporre un ultimo atto secondo il proprio sentire. Fino alla fine: il matrimonio, i figli d’anima, la grande casa condivisa, i diritti che bisogna ogni volta reclamare, la trasversalità degli affetti, la visione queer della vita. Era la sola, l’unica, titolata a farlo. Lei, la Protagonista, messa spalle al muro da quella malattia che lascia sempre un tempo “x”, indefinito, un’ incognita, la risposta impossibile alla domanda “quanto mi resta?”.

Calato il sipario sul dramma vero, ecco che se ne alza un altro già durante e ad esequie avvenute: il collega-scrittore, l’amica eletta, il marito in articulo mortis, i figli d’adozione spirituale, la mamma, il medico. Personaggi pirandellianamente evocati sul proscenio da un giornalismo che più che dindini alle edicole, ormai fa incetta di clic sulla rete. Quante centinaia di migliaia di pagine viste farà ognuno di loro? E senza che nessuno metta in dubbio la buona fede di quelli che parlano, questioni sulla sincerità di chi ha condiviso gli ultimi giorni della scrittrice, abbia perplessità sullo spessore umano e professionale dell’oncologo che tutti garantiscono persona e dottore di grandissima sensibilità, è questa scena mediatica che spiazza, questo coro che assorda, questo extrafinale che imbarazza.

C’è poi un altro punto dolente. Michela Murgia ha deciso di vivere la sua malattia attraverso un incantato stoicismo, un messaggio che passasse positività attraverso gli impegni quotidiani, i progetti fino a non si sa quale giorno, le interviste, l’ultimo libro dettato quando non poteva più muoversi dal letto fino all’ultimo respiro e le cerimonie, i turbanti, i vestiti, i colori, una sorta di contraltare laico – e al tempo stesso religioso anche se non ortodosso, eretico, come lo era lei, e spiritualissimo – di quell’altra versione del viaggio verso la fine che vede nel sacrificio, nel dolore, nella sofferenza, il salvacondotto per arrivare alla Luce, il viatico per la conoscenza del Supremo, il pass verso la prefigurazione dell’Altro. Né l’una né l’altra visione convincono: il sacrificio, il dolore, la sofferenza non sono il biglietto di non ritorno per nessun altro mondo, sono sacrificio, dolore, sofferenza dannatamente terreni e basta; e la morte non è mai bella da affrontare, non sono una condivisione festosa né uno sgargiante abito rosso ad edulcorarne il sentore, non è l’arrendersi ineluttabile alle sue braccia a farcela sentire meno grave. La morte è morte, anche se la vita, a volte, vorrebbe girarci intorno facendone dramma o commedia.