Doveva essere la “gens nova”, dovevano essere gli uomini del nuovo mondo della politica. Invece si sono insediati nei palazzi del potere con arroganza e spregiudicatezza. E non sembrano avere altra missione se non quella di proteggere le loro clientele, le loro confraternite, le loro lobby. Altro che patrioti. Se ne fregano della patria e anche della Sicilia, che è un pezzo di patria flagellata dalla crisi, martoriata dal malgoverno e abbandonata al suo destino. Altro che Fratelli d’Italia. Alla resa dei conti si sono rivelati i coltelli d’Italia: il presidente Schifani componeva il mosaico della nuova giunta e loro lo scomponevano; il presidente ricuciva e loro tagliuzzavano ogni filo, ogni equilibrio, ogni intesa. Si sono mostrati insopportabili, ingestibili, inaffidabili. A cinquanta giorni dal voto c’era il rischio che tutto crollasse, che il centrodestra andasse in frantumi, che il presidente della Regione si dimettesse e si tornasse di nuovo alle urne.

Sarebbe stata ovviamente una sciagura. Ma Francesco Lollobrigida, potente cognato di Giorgia Meloni, non sembrava temere una simile prospettiva. A lui interessava mettere Francesco Scarpinato, un suo caporale, all’assessorato del Turismo dove per tre anni aveva fatto da sovrastante. E ci è riuscito. Ora può riprendere tranquillamente il controllo dei settanta milioni con i quali il fedelissimo Balilla, meglio conosciuto come il Cavaliere del Suca, ha lucidato per tre anni i bilanci di Mediaset, di Urbano Cairo, e dell’agenzia che ha gestito –  e di sicuro continuerà a gestire – i ricchi pascoli della pubblicità e  della comunicazione con la motivazione sacra e inoppugnabile, va da sé, di valorizzare le bellezze della Sicilia.

Il nobile Cognato ha avuto al suo fianco, in questo malinconico gioco di potere, Nello Musumeci, ministro del Mare senza mare e al quale lo stesso Lollobrigida, quale ministro della Sovranità Alimentare, ha sottratto le competenze sulla pesca (i porti glieli aveva già sfilati Matteo Salvini). L’ex governatore ha voluto a tutti i costi piazzare in giunta Elena Pagana, moglie di Ruggero Razza, ex imperatore della Sanità. Ha minacciato anche lui fuoco e fiamme pur sapendo che Schifani difficilmente avrebbe potuto accettare in giunta due esterni, bocciati dalle urne, dopo avere per settimane affermato il principio che gli assessori sarebbero stati scelti tra deputati di Sala d’Ercole.

Non è difficile, del resto, immaginare il tormento del nuovo inquilino di Palazzo d’Orleans. E’ stato eletto con il 42 per cento dei voti: un successo. Ma si è trovato per un’intera notte tra l’incudine e il martello: o cedere al ricatto dei vincitori e smentire se stesso; oppure dimettersi, con tutte le conseguenze disastrose non solo per la Sicilia, ma anche per i settanta deputati dell’Ars costretti per la seconda volta al giudizio degli elettori.

Alla fine ha scelto la via della responsabilità. E’ stata una scelta dura, difficile, per certi versi persino mortificante. Ma I siciliani capiranno chi è stato in questa vicenda il vero patriota e chi sono stati i barbari.