La Sicilia è una regione a rischio, lo sappiamo. I pochi posti-letto in Terapia intensiva, le difficoltà a garantire i servizi nei reparti ordinari, la carenza di medici e anestesisti (tanto da richiamarne alcuni dalla pensione e rendere operativi un buon numero di specializzandi) e la presenza di alcuni focolai incontrollati, come a Vittoria e Centuripe (dichiarate entrambe “zona rossa”), la rendono tale. Senza considerare le refluenze economiche di un secondo lockdown, che esporrebbero l’Isola, ormai priva di difese immunitarie, al collasso: il sipario sulle attività “non indispensabili”, come si è fatto in Francia o in Gran Bretagna, sarebbe un incubo per famiglie e lavoratori. Settancinquemila sono stati spazzati via dalla prima crisi, ottocento sono in attesa (ancora) di cassa integrazione. Pietà.

Ma le sorti delle venti regioni italiane e delle due province autonome – Trento e Bolzano – saranno stabiliti in queste ore dai freddi numeri delle statistiche. Le sorti dell’Isola scorrono su un binario incerto, anche se è molto difficile, quasi impensabile, che venga risparmiata dalla drammaticità del momento. Sembrano i sorteggi di Champions: a incidere sulla collocazione delle “squadre” – nelle tre aree di rischio, che somigliano a dei gironi all’italiana – sono un paio di documenti. Il primo si intitola “Prevenzione e risposta a Covid 19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-inverno”. E’ il testo che suddivide le regioni in quattro scenari di crisi: noi siamo in quello “3”, a differenza di Calabria, Emilia, Lombardia, Piemonte e provincia di Bolzano hanno già varcato il confine. Questo studio tiene conto dell’indice Rt, che si riferisce ai soggetti che ogni positivo può contagiare a sua volta. Mentre la Lombardia scollina il 2, in Sicilia è fermo a 1,42 (nelle rilevazioni del 19-26 ottobre). Lo scenario “4” comincia poco più in là, a 1,5.

Però una cosa va chiarita in anticipo. Allargando il campo d’osservazione alle province, e non più alle Regioni, Caltanissetta ed Enna abitano nei quartieri alti della classifica. Fanno parte anche loro delle 29 osservate speciali. Seguono, a distanza di (in)sicurezza, Agrigento, Catania e Ragusa. L’Isola nell’Isola al momento è Siracusa (indice Rt al di sotto dell’1). Ma, badate bene: non sarà un sorteggio. I parametri da considerare per le chiusure territorializzate – Conte, infatti, ha escluso lockdown generali e indistinti – sono ventuno: derivano dal monitoraggio della cabina di regia dell’Istituto Superiore di Sanità. Un report di per sé sguarnito, dato che molti sistemi sanitari regionali, alle prese con una fase delicatissima di contenimento del virus e di contact tracing (il tracciamento di coloro che sono entrati a contatto coi “positivi”), non riescono più nemmeno a comunicare i dati. In questo caso siamo, comunque, tra le undici regioni a progredire in maniera più preoccupante (si pensi al dato della Terapia intensiva: nell’Isola il punto di rottura è di 175 ricoveri, ieri eravamo a 142).

Una cosa è certa: il calcolo è complicato e non è affatto aritmetico. Di fronte alla scelta finale del governo – sarà il Ministro della Salute a stabilire la fascia di rischio e a prevedere le restrizioni più appropriate utilizzando l’ordinanza – ci saranno sollevazioni popolari. Tra chi predilige la salute e chi l’economia. L’unico a tenersi fuori dalla partita, per il momento, è il governatore Nello Musumeci. Lo stesso che fino a una settimana fa sfidava Roma con un ddl sul modello Alto Adige – per consentire la riapertura dei ristoranti fino alle 23 – e adesso innesca la retromarcia, allineandosi ai presidenti più prudenti. Nel corso delle ultime riunioni col governo nazionale e con il Comitato tecnico-scientifico, la Regione si è limitata a chiedere una riduzione della mobilità e un’assistenza medica e farmacologica “rafforzata” all’interno dei domicili. Mossa utile a non sovraffollare gli ospedali (alcuni, in Sicilia, sono già al punto di rottura).

Ma dando uno sguardo, qua e là, negli ambienti della politica siciliana, c’è qualcuno che non si arrende alla previsione lugubre di Musumeci (“Tanto si sa che arriveremo al lockdown”). Quel qualcuno è Gianfranco Micciché, che è tornato a rivendicare il proprio “no”. Memore della prima ondata, quando la Sicilia “non doveva essere zona rossa”. Ecco il pensiero del presidente dell’Ars: “A marzo i presidenti delle regioni del nord hanno preteso che si chiudesse tutta l’Italia facendoci perdere oltre 9 miliardi. Ma noi avevamo, in tutta la Sicilia, meno contagiati della sola provincia di Como e ora ci riprovano. Il presidente Nello Musumeci adesso non accetti per la seconda volta questo ricatto. Chiudano solo le regioni del nord, noi non siamo in emergenza! La nostra economia così debole subirebbe un colpo davvero mortale da cui non sarebbe possibile riprendersi”. Micciché ha riaperto il fuoco nei confronti della Lega. Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, infatti, aveva chiesto un blocco generale delle attività economiche: “Se tutti la pensassero come lui – ha sentenziato il leader di Forza Italia – vuol dire che sarebbe tornata la Lega Nord”.

Con Micciché, però, si schiera il Carroccio del Sud. Capitanato, all’Ars, da Antonio Catalfamo: “Le esternazioni del presidente Fontana non sono la sintesi del pensiero della Lega – ha detto il capogruppo del partito all’Ars -. Bisogna escludere in ogni modo l’ipotesi del lockdown nazionale che sarebbe l’ennesima mazzata alla nostra economia. Nonostante la proposta di estendere il lockdown all’intero territorio nazionale provenga da un presidente leghista, vi è una Lega maggioritaria che lavora per delle proposte concrete per salvaguardare l’economia e salute e scongiurare un altro lockdown”. In questa presa di posizione netta, che rinsalda il fronte siciliano degli “aperturisti” e del centrodestra tutto, Catalfamo, assieme al segretario Stefano Candiani, valuta una serie di proposte da adottare subito, come “tamponi a domicilio e test in farmacia”, evidenziando come sia necessario “incrementare i mezzi del trasporto pubblico” e non chiudere le “attività che rispettano le regole”. “Bisogna guardare come esempio il modello Veneto – insiste il deputato regionale – dove il presidente Zaia ha attrezzando le strutture ospedaliere dedicate al Covid in punti di riferimento provinciale per distinguerli dalle hub per l’attività ordinaria. Inoltre, sono state predisposte sempre in Veneto, quasi 1000 posti letto di terapie intensive o semi-intensive che hanno attaccata la tecnologia per commutarli in intensiva, in caso di peggioramento del paziente”.

Ma la Sicilia non è il Veneto – non ha Zaia e soprattutto non ha abbastanza posti in Terapia intensiva (il 19% di quelli disponibili è già saturo) – e a differenza del Veneto non potrà reggere per molto tempo il ritmo tambureggiante del virus. Anche un altro leghista eccellente, Alberto Samonà, ha avuto da ridire rispetto alle anticipazioni del nuovo Dpcm: “Quello che si profila con un simile provvedimento è il colpo di grazia, da parte del governo nazionale, nei confronti del settore della cultura. In Sicilia dallo scorso 30 maggio abbiamo riaperto i musei e i parchi archeologici, dotando i luoghi della cultura di tutti i necessari dispositivi di protezione e di sicurezza per visitatori e lavoratori, proprio per garantire la piena fruibilità dei siti nel più scrupoloso rispetto delle norme anti Covid. Evidentemente, per il premier Conte e il suo governo la cultura non serve a nulla, nonostante in Italia e in Sicilia sia una delle principali leve dell’economia”.

In questo periodo greve, però, sembra un’aspirazione di pochi salvaguardare – insieme – salute ed economia. O forse, semplicemente, non è possibile.