In quanto giornale-partito, con una robusta proprietà editoriale e industriale e finanziaria alle spalle, Repubblica ha legittimamente deciso di fare una sua campagna forte, vibrante, contro il governo e la maggioranza usciti dalle urne e dal voto parlamentare. Le domande contro Berlusconi erano dieci, i conflitti di interesse sono cento. È la moltiplicazione dei pani e dei pesci liberal. Il fondamento è come sempre passare dal controllo di legalità, che è già un modo di trasformare la funzione della giustizia in ideologia, al controllo di moralità, che fu ed è un aggrapparsi a tutto, perfino al vecchio e squalificato “comune senso del pudore”, per colpire l’avversario politico del partito-giornale e costruire il contesto che rende possibile la persecuzione in giudizio intesa come ordalia benpensante invece che come prassi secondo la legge.

Da notare che di giornale-partito, giudizio con cui quel giornale fu in certo senso “scomunicato” dalla politica dei partiti che fondavano le istituzioni parlamentari (e Dio solo sa se non seppe vendicarsi con la sua lunga ininterrotta adesione al giustizialismo), il primo a parlare non fu uno pseudo-underdog come Meloni, araldo del “vittimismo dei vincitori”, secondo quanto scriveva ieri Ezio Mauro in una astuta circolare politica per l’establishment dei lettori o quel che ne resta, ma un leader socialista e uno statista vecchio stile, nel bene e nel male, come Bettino Craxi. Erano addirittura i tempi in cui Repubblica si vantava di essere lo strumento neutrale e imparziale di un “editore puro”, come scriveva Scalfari, salvo che poi quei tempi furono superati, con Carlo De Benedetti e poi con gli Elkann proprietari, dalla verità delle cose e dei cento, mille conflitti di interesse potenziali lasciata emergere dal tempo (cose che erano vere anche prima della vendita del giornale agli impuri in cambio di una dote per le figlie, con Carlo Caracciolo e con Mondadori, solo di una verità più coperta e come dire opacizzata dalla cosmetica liberal).

Mauro nella sua circolare combattiva, pregiata per come pensata e scritta, incorre in due incidenti o lapsus che vale la pena sottolineare da questa che è una infinitamente più piccola tribuna ma non pretenziosa, consapevole che la libertà di un giornale è anche la libertà nel giornale, nel non avere una linea di partito ma al massimo l’orizzonte permanente di una fronda e di un pluralismo che sollecita tutte le intelligenze e le sensibilità in rapporto ai fatti e alle cose. E il primo lapsus è appunto nell’appellarsi a un “canone occidentale” della libertà di stampa, “visto che nei paesi normali sono i giornali che giudicano i governi, davanti alla pubblica opinione, e non gli esecutivi che li scomunicano dal Palazzo”. No, nei paesi normali del canone occidentale i giornali informano, criticano, polemizzano anche distruttivamente e con brio, variano soprattutto lo spettro della loro cultura politica e non fanno crociate ultraventennali sempre con lo stesso nemico di fronte e con gli stessi argomenti, non fondano ordini professionali della correttezza ideologica, al massimo manifestano inclinazioni forti e tendono alla persuasione senza fare mostra di un “vittimismo dei perdenti”. In circostanze eccezionali, mobilitano tutte le loro energie nella difesa di valori e criteri di vita pubblica, come nel caso del rapporto tra la stampa americana e il fenomeno ultra-borderline di Donald Trump, ma non decretano chiamate alle armi per delegittimare le istituzioni, chiunque sia a impersonarle. Basterebbe chiedere a un famoso settimanale che si stampa a Londra da un secolo e mezzo, l’Economist nella cui proprietà è determinante la famiglia Elkann, che giudica overblown, esagerati, i pregiudizi dei liberal sul governo di destra uscito in Italia dalle urne. Il Foglio scrive da mesi le stesse cose, senza risparmiare critiche al governo e senza dimenticare di valutare secondo misura e saggezza l’evidente impreparazione dell’opposizione e dei suoi vezzi armocromisti. Continua su ilfoglio.it